Sincera apologia della caccia da parte di un (convinto) vegetariano
di Lorenzo Natural
Recensire un’opera – in questo caso un film – di dieci anni fa potrebbe apparire un’operazione anacronistica, anche se, parafrasando Montaigne, «ciò che me ne rimane è qualcosa che non riconosco più altrui», che sento mio.
In ogni caso Il Grande Nord, splendido, per tematiche e fotografia, docufilm del 2003 del francese Nicolas Vanier, che descrive il rapporto del cacciatore Norman Winther (che interpreta se stesso) con la natura attraverso i paesaggi dello Yukon, non ha fatto altro che darmi lo spunto per una breve analisi su un fenomeno spesso molto dibattuto: la caccia.
Il fenomeno della caccia è oramai diventato argomento tabù nella società dei consumi. Si badi bene che, quando parlo di caccia, lo faccio riferendomi all’attività legale dedita al procacciamento del cibo e non alla mera attività ludica o al bracconaggio. Vi chiederete a ragione: come fa un vegetariano a tratteggiare l’apologia della caccia? A mio avviso ci sono numerose ragioni, alcune delle quali il film stesso mi ha aiutato ad analizzare.
È interessante sottolineare come la pratica della caccia sia necessaria se si vuole veramente proteggere l’ambiente (e sbaglio, o gran parte delle levate di scudi contro la caccia provengono da cerchie ambientaliste e, lapalissiano dirlo, animaliste?): ristabilisce l’equilibrio naturale in cui l’uomo è parte attiva della catena alimentare. Nel film è emblematico il passaggio in cui Norman descrive come «un problema» l’assenza di cacciatori nel Grande Nord in quanto «prelevando delle piccole quantità di animali, evitano che una specie si moltiplichi troppo a detrimento di un’altra. Questo non nuoce affatto alle popolazioni degli animali selvatici, al contrario, le rivitalizza».
La caccia, inoltre, garantisce il rispetto sacro della vita e dell’ambiente, in cui l’uomo si situa. E non occorre pensare a lontane quanto affascinanti popolazioni nomadi, ma basta osservare la nostra meno esotica, ma più aderente a noi, tradizione preindustriale in cui l’animale cacciato viene rispettato cibandosi di tutte la sua carne, annesse lingua, fegato, trippe, che oggi i più, schizzinosi per natura, non osano toccare, e limitandone il consumo in occasione di determinati momenti del mese.
L’attività venatoria pone, poi, sullo stesso piano l’uomo e l’animale, il cacciatore e il cacciato (che è cacciatore a sua volta). Certo, l’uomo è in possesso dell’arma da fuoco, ma anche l’orso nei confronti del salmone si trova in una posizione privilegiata: la forza bruta che nell’uomo manca è sostituita dall’ingegno, qualità intrinseca ed endemica del nostro essere umani, come lo è la velocità per il ghepardo, il mimetismo per il camaleonte, il veleno per il serpente. Evidentemente ciò non è chiaro ad alcuni primitivisti d’accatto che vorrebbero sì la caccia, ma solo con arco e frecce, come se non fosse anche questa un’invenzione tecnica prodotta dall’ingegno umano. Ma, soprattutto, la caccia garantisce l’affrancamento dall’allevamento industriale degli animali destinati alle nostre tavole.
Sembra assurdo che la crociata anti-caccia provenga per lo più da individui non vegetariani. Perché? Anche qui ho isolato una serie di motivazioni plausibili. Evidentemente i più non conoscono o non vogliono conoscere le condizioni di vita e di morte degli animali d’allevamento di cui poi si cibano tanto più che si rifiutano di approfondire l’argomento, forse perché non vogliono privarsi del pollo con le patate o del panin porzina, senape e kren… per carità, nessun moralismo, ci mancherebbe, ma non si demonizzino i cacciatori!
Correlata vi è la deresponsabilizzazione dell’individuo divenuto mero consumatore che preferisce non vedere, né agire in prima persona, delegando ad altri il procacciamento del proprio fabbisogno alimentare, additando, perlopiù, chi si “sporca le mani”.
Vi è inoltre la convinzione che nella caccia vi sia una certa vena di sadismo ludico. Non posso ovviamente garantire per l’intera categoria dei cacciatori né intendo farlo, ma evidentemente l’uomo medio moderno – sempre pronto a criticare ciò che gli è diverso – non comprende il mondo in cui il cacciatore stesso agisce, mondo che egli conosce perfettamente (al di là, ripeto, dei cecchini della domenica) e in cui è in sintonia.
Forza alla crociata è data anche dalla sistematica equiparazione dell’animale all’uomo, grazie anche a propagande come quella della Disney che hanno creato cuccioli da coccolare con sembianza e atteggiamenti sempre più antropomorfi, ridicolizzando l’animale e rendendolo un umano in miniatura, sradicandolo dalla sua natura. Propaganda, voluta o meno, ancor più ridicola perché rende il cinghiale un maialino cresciuto e peloso, mentre il topo un animalaccio che si può uccidere senza che l’opinione comune – eccezion fatta per pochissimi attivisti – si muovano. Insomma, animali di serie A e di serie B.
Se, poi, tutti questi motivi vi sono indifferenti, converrete con me che la carne industriale proveniente da animali allevati con metodi forzosi e mangimi di pessima qualità sia meno sana di quella da selvaggina…
Per quanto mi riguarda, alla scelta vegetariana contribuiscono la difficile reperibilità di carne cacciata (non credo mica che dobbiamo diventare 7 miliardi di cacciatori, si badi bene), l’obiettiva incapacità a procurarmi la carne di persona , ma soprattutto una scelta etica e di personale benessere dovuta a una presa di coscienza attraverso la visione di quel che sta dietro l’industria dell’allevamento intensivo. Nel rispetto della vita e della morte che, come osserva Norman, «dona sostentamento a cinque altre vite». Ecco quindi le ragioni della mia sincera apologia della vera caccia. Con un malcelato velo di disprezzo per tutti quegli snob radical chic col nasino all’insù come la signorina di Guerra e pace descritta dal principe Andrej, tanto magnanima e sensibile «che sviene se vede ammazzare un vitello e […] non tollera la vista del sangue; ma con ottimo appetito mangia poi quello stesso vitello preparato con la salsa».