di Ilaria Moretti
Il libro è dedicato al “Dottore che mi ha aiutato a nascere”. Marie Cardinal apre così il suo volume Les mots pour le dire – Le parole per dirlo – pubblicato nel 1975 in Francia e tradotto in Italia per Bompiani. Lo ripeterà nel corso degli anni, nelle interviste scritte e in quelle trasmesse alla televisione quando con sigaretta alla mano e taccuino steso sul tavolo, instancabile nel gesto della scrittura, sosteneva dinnanzi a giornalisti sbigottiti di essere nata nel 1961: l’anno del suo primo incontro con il “petit docteur”, l’anno d’inizio della sua psicanalisi, l’anno dei suoi trentatré. Perché il libro, a metà tra l’autobiografia e l’autofiction, narra di questo: è il diario di un’analisi, di un percorso iniziato sull’orlo della follia dopo che Marie è scappata da una clinica psichiatrica. Ha schivato l’ottundimento da farmaci, sputato l’unica “droga” capace di frenare le emorragie. Si è scacciata da un letto d’ospedale, senza forze ha attraversato il giardino della clinica, è evasa con la complicità del marito aggrappandosi all’unico lembo di lucidità rimastole: salvarsi.
Il percorso inizia nel sangue, in un bagno ferroso di sangue, ché Marie soffre, inspiegabilmente, di enormi perdite vaginali. Perdite costanti, massicce, imponenti e mostruose, perdite che le impediscono di andare al lavoro – è insegnante – di occuparsi dei suoi tre figli, di pulire la casa, fare la spesa, essere una buona moglie che fa l’amore con il marito la sera, nonostante il peso della giornata, la stanchezza, il disinteresse, la fatica di vivere. Le perdite non hanno una causa fisiologica. Forse sì: un ginecologo, una volta, le ha diagnosticato un “utero fibromatoso” e quell’aggettivo, “fibromatoso, fibromatoso!” ripetuto nelle notti di sangue e angoscia, invece che essere la chiave della guarigione si fa porta dell’inferno. Fibromatoso è il suo presente, fibromatoso è il giorno che si leva e non ha senso, fibromatosa è la parola che non esce, che si impiastriccia nella fatica dell’appannamento mentale. Perché Marie non è più se stessa, il suo corpo non la segue, è una gabbia vischiosa, molliccia, senza nerbo e senza forze, appesantita dai farmaci, dalla saliva pastosa e il sapore di ferro nelle narici. Tutto le è impossibile: alzarsi, lavarsi, vestirsi, dire buongiorno. Tutte le azioni, i gesti, i visi incontrati durante la giornata hanno un denominatore comune: sono niente, fatti di niente. Non c’è differenza tra figli, estranei, colleghi e genitori. L’altro si profila nell’indifferenza, quel che conta è solo “la chose”, la cosa, la malattia, il male che non ha più etichetta, che si annida nell’odore di morte, nelle chiazze rosso cupo che si allargano a vista d’occhio, nei rivoli che scendono lungo le gambe, indecenti, scomposti. Il sangue è sulle poltrone delle sale d’aspetto, sugli strapuntini unti degli autobus, i sedili di pelle dell’auto, suoi divani inamidati di amici insopportabili e ancora sulle sedie di vimini, gli sgabelli, anonime panchine.
È così, esangue, dopo una notte di lotta, che Marie inizia la sua psicanalisi. Il patto con il dottore è chiaro: nessun farmaco, nessuna droga. “E se il sangue si presenta? – Lo lasci scorrere.” Non sarà solo il sangue a scorrere e poi, misteriosamente, a sparire. Saranno le parole, le parole per dire “la cosa”, per dare voce a un presente di sconfitta, un presente che è solo spavento, inazione e impotenza. Marie scava, il percorso durerà sette anni. Sette anni di guerra, scanditi da un combattimento quotidiano: quello contro se stessa e i propri fantasmi. Sette anni cuciti dalla scrittura (“i tre incontri a settimana con l’analista non mi bastavano. Per questo ho iniziato a scrivere”), anni di passi avanti e di stasi, di sabbie mobili, di rimasticamenti, di schianti contro l’inconscio e le sue rovine. Prima c’è il periodo della parola, del raccontare il presente, del mettere nome ai dettagli conosciuti: i traumi di tutti i giorni, le disperazioni, l’infelicità senza saliva, senza spasmi, l’apatia. Poi arriva il silenzio. Lunghi incontri dove Marie, inerte, sul divano, con il capo voltato, sta zitta, sospira, a volte si addormenta. La terza fase è quella della rabbia: giorni e ore di ira cieca, spavalda, volgare, di incontri saltati senza preavviso “ma da pagare ugualmente”, insulti contro al dottore “lei è un tipo disgustoso che passa le sue giornate ad ascoltare le porcate degli uni e degli alti. Ma è lei a provocare queste infamità. Lei è un essere abietto”, di odio e ancora odio.
E poi la porta si apre, la rabbia si trasforma in singhiozzi e le parole chiave, le parole che il dottore suggerisce come fossero sassi, pochi sparuti sassi utili per attraversare un fiume in piena, permettono l’incontro con il sommerso. Il passato interrato in un angolo del cervello è un forziere di immagini infantili, sfocate, ch’eppure ritornano nitide. È una giornata di sole, “sono molto piccola, una bambina che riesce appena a camminare. Passeggio in una grande foresta con la mia nutrice, c’è mio padre. Ho bisogno di fare pipì, la tata mi ha nascosto dietro a un cespuglio”, oppure è il treno, il ricordo di un treno, l’ossessione della madre per le malattie, l’alcool a novanta gradi per disinfettare porte e sedili, il rumore delle rotaie, l’angoscia d’essere risucchiati, polverizzati dalla velocità. O è il disgusto di un passato di verdura, l’urto della nausea, la paura d’essere rapida dall’“uomo dei vestiti”, un rumore ossessivo contro il vetro, il ventre che si stringe sferzato da un pugno di pietra, fiotti e fiotti di vomito, l’obbligo di rideglutirselo a cucchiate, tra le risa dei parenti, sotto l’occhio severo di una madre impassibile: “questa bambina è fuori controllo”.
Non serve mascherare la realtà, incipriare le parole, renderle convenevoli, interessanti, degne di nota. Il lavoro di Marie passerà per l’accettazione del niente, dello sbaglio, del disinteresse che porta comunque significato. Accettare la vita nelle sue manifestazioni, saper riconoscere il pericolo, saperlo trasformare, mettere paletti contro il male che proviene dagli altri, sapersi salvare a discapito del prossimo, pensare a se stessi prima per amare meglio poi. Amare di più: essere donna, scrittrice, madre, moglie, una figlia non succube, non adorante, non crudele, semplicemente lucida. Il riconoscersi in quanto soggetto passa dal riconoscersi in quanto donna. Conoscere il proprio corpo, non avere orrore delle fragilità, dei tessuti molli, delle cavità senza protezione, degli angoli bui pieni di polvere che fanno parte di noi e sono il nostro passato e, sembra dirci Cardinal, anche il nostro presente. Senza un’adeguata consapevolezza verso la fibra che ci costituisce – carne, sangue, muscoli e tanto cervello – è impossibile l’accettazione. Senza accettazione non c’è identità, presente e futuro, non c’è corpo, né respiro. Non c’è esistenza. Nascere è possibile dunque, una seconda volta, forse l’unica che conti. Nascita che significa acquisizione del proprio io. Senza spavento.