di Francesca Plesnizer
T2 – Trainspotting è un sequel riuscito. Non è esplosivo, ma non poteva, del resto, esserlo: cercare di ricreare la carica dinamitica del primo episodio sarebbe stata non solo un’impresa vagamente patetica, ma anche impossibile. Vent’anni fa i tre tossicodipendenti Renton, Sick Boy e Spud, insieme al violento alcolista Begbie, cavalcavano l’onda dell’impetuosa e autodistruttiva ribellione giovanile degli anni novanta, scegliendo esplicitamente – come ci ricorda il prologo del film – di non scegliere la vita.
«Le ragioni? Non ci sono ragioni. A chi servono ragioni quando hai l’eroina?» sciorinava Ewan McGregor nell’indimenticabile monologo introduttivo del primo Trainspotting (che merita di essere ascoltato in versione originale, con quell’irresistibile e strafottente inflessione scozzese).
Tuttavia, alla fine di questo grande cult degli anni novanta, Rents (McGregor) frega i suoi amici e scappa con il bottino di sedicimila sterline che i quattro avrebbero dovuto spartirsi. Renton non sembra affatto pentirsi di questo tradimento, mentre fugge col malloppo – e perché avrebbe dovuto? Rubare e imbrogliare è nel suo DNA, così come in quello dei suoi compagni, fatta eccezione per Spud: per lui Rents prova pena e affetto, perché Spud non ha mai fatto male a nessuno, così gli lascia in segreto la sua parte. Alla fine del primo Trainspotting Renton sembra scegliere la vita, anche se ovviamente questo non ci garantisce che, dal giorno successivo, egli opterà per qualcosa di radicalmente diverso rispetto all’esistenza da eroinomane. L’inizio di T2- Trainspotting ci mostra infatti come, nei vent’anni successivi a quella fuga e a quel tradimento, il protagonista abbia semplicemente deviato l’oggetto della sua dipendenza, e ci suggerisce che in fondo siamo tutti assuefatti: al lavoro, ai soldi, ai rapporti, alle cose che compriamo, ecc… .
All’inizo del sequel di Boyle ritroviamo infatti Renton immerso in una vita da zombie, in quella tipica esistenza da uomo medio ben incasellato che, per tutta la durata del primo film, aveva ostinatamente rifiutato: ha scelto il lavoro, il “maxitelevisore del cazzo”, la famiglia, i figli, la buona salute, il colesterolo basso, la prima casa, e ancora la pensione, l’ospizio e avanti, fino al giorno in cui morirà.
In questo nuovo capitolo ha quarantasei anni ed ha passato gli ultimi due decenni ad Amsterdam conducendo una vita cosiddetta normale. Non si fa più di eroina, ma – come spiegherà a Spud – corre, sostituendo la droga con l’esercizio fisico. Eppure, eccolo di nuovo a Edimburgo – e tutto lascia pensare che, se è tornato, qualcosa (e forse anche più di qualcosa) deve essergli andata storta.
Il tema del ritorno è centrale: come un figliol prodigo, Renton torna alla sua città natale per «fare una vacanza nostalgica nella sua giovinezza»; si tuffa nel suo passato e lo abbraccia, toccandone con mano le macerie e osservando con occhi invecchiati ciò che era stato. Fa i conti con quello che è rimasto: nella casa dov’è cresciuto c’è solo suo padre, incanutito e appesantito, che gli racconta che sua madre se n’è andata serenamente, ma sperando sempre in un suo ritorno, e che la sua vecchia camera da letto è stata lasciata esattamente così com’era. Si ripresenta poi da Spud – che ci regala una sequenza ancor più esilarante e disgustosa di quella di cui era stato protagonista nel film precedente (chi lo ha visto capirà di sicuro). Lo trova completamente alla deriva, riuscendo ad acchiapparlo giusto in tempo. Spud è ancora un drogato, e la compagna di una vita lo ha abbandonato – non vede quasi mai nemmeno suo figlio. Eppure, a dispetto della sua solita, ridicola e assurda mimica facciale, si rivela inaspettatamente un personaggio cruciale, dotato di una sensibilità che lascia a bocca aperta: si mette a fare il cantastorie, e scrivendo le avventure divertenti e pericolose vissute vent’anni prima, dimostra di conoscere i suoi amici più di quanto loro conoscano se stessi. Danny Boyle fa emergere uno Spud dall’animo profondo, dotato di una lealtà ancor maggiore – un personaggio con cui si empatizza e si simpatizza, insomma, che è sia rivelazione (per gli spettatori) che rivelatore (per i suoi amici).
È sempre lui ad individuare un’altra costante in Trainspotting: «Prima c’è un’occasione, poi un tradimento». Renton e soci, infatti, cercano costantemente una possibilità per svoltare, sono sempre a caccia di un qualcosa – che sia lo sballo, i soldi facili o l’evasione da una realtà che li soffoca. Anche questo anelito verso uno sfuggente ed impalpabile “in più” può essere considerato senza dubbio una dipendenza. I quattro amici cercano sempre di fregare e fregarsi a vicenda – ma è un ciclo che non può ripetersi all’infinito: va spezzato, se si vuole avanzare, e sia l’occasione che il tradimento possono forse essere due opportunità per cambiare rotta, abbracciando il nuovo e vincendo sul vecchio.
Renton fa ritorno anche dal suo antico migliore amico, un Sick Boy che ha mantenuto la sua capigliatura ossigenata e tira avanti nell’illegalità. L’incontro tra i due è da brivido e lascia con il fiato sospeso: a una conversazione iniziale, fintamente noncurante, nel corso della quale i due si aggiornano sulle rispettive vite, seguono delle vere e proprie botte da orbi, una truce rissa in pieno stile Trainspotting, comprensiva di boccali di birra spaccati in testa e stecche da biliardo spezzate sulla schiena.
Un altro leitmotiv è quello del cambiamento: numerosi gli accostamenti e le sovrapposizioni tra scene del vecchio e del nuovo film, un focus a volte crudele e duro da mandare giù – ma la vita è anche questo. Non mancano i fermi immagine e i primi piani tipici di Boyle, che qui sono una costante che sottolinea lo scorrere del tempo. Ewan McGregor ci propone un “Choose life” attualizzato, che non poteva mancare: ci invita a scegliere Facebook, Twitter, Instagram, scegliere di vomitare rabbia su gente che non conosciamo sui suddetti social network, sperando che a qualcuno, da qualche parte, freghi qualcosa, scegliere un contratto a zero ore e due ore di tragitto casa-lavoro, e lo stesso per i nostri figli, ma peggio, e così via. Stavolta, però, il monologo sembra un grido di aiuto, un lamento – forse perché Rent Boy sente di essere dentro a questo meccanismo fino al collo?
In un periodo in cui i registi propongono sequel, reboot e remake, non si può certo dire che Danny Boyle si sia limitato ad una “operazione nostalgia” né ad un mero fan service: sì, il malinconico elogio del passato c’è, è come una grande mano che tiene la nuova pellicola sul suo palmo, proteggendola con le dita, ma c’è anche dell’altro. I ricordi comuni sono ciò che tiene insieme i quattro protagonisti (ma anche ciò che li divide: Begbie ha infatti un’insaziabile e sanguinaria sete di vendetta nei confronti di Renton). Significativa è la scena in cui Veronika, la misteriosa e intrigante compagna d’affari di Sick Boy, osserva quest’ultimo e Renton mentre si lasciano andare alle rievocazioni, felici come bimbi il giorno di Natale, e dice loro – in bulgaro, sua lingua madre – che sanno unicamente parlare del passato, ma che nel suo paese non se ne parla mai perché è qualcosa di finito, concluso.
Di solo passato non si può sopravvivere, ed infatti il film appare come un’ode al cambiamento, che per alcuni si verifica, per altri invece no: da questo secondo capitolo c’è chi esce liberato, mondato finalmente capace – in qualche modo – di esorcizzare i propri demoni, e chi invece non è in grado di andare avanti e ristagna – e forse sarà per questo destinato a spegnersi (?).
Il film ci dà uno schiaffo in faccia e aggiunge una terza alternativa al “choose life” e allo “scegliere di non scegliere la vita”, suggerendoci che, forse, è anche possibile scegliere la vita per davvero. Scegliere un modo di vivere non attutito, non fatto di dipendenze socialmente accettate che ci conducono inconsapevolmente – un giorno dopo l’altro – alla vigilia del nostro ultimo giorno; non un’esistenza da automa perfettamente incastrato nelle logiche collettive, ma semplicemente la vita.
Ma che cos’è, questa vita? Per il Danny Boyle di oggi è tornare ad abbracciare gli affetti, ma anche accettare il mutamento, l’evolversi delle cose che, scalfite dallo scorrere del tempo, non potranno mai restare uguali a se stesse; la vita è decidere di non fare la cosa più semplice – perché lasciarsi andare alle proprie rassicuranti abitudini, sane o malsane che siano, è facile, mentre rompere con esse è difficile. La vita è procedere, non indietreggiare né girare in tondo, e – infine – la vita è riuscire a ballare una vecchia canzone in modo diverso.