Terrore in umido al Science+Fiction

di KolektivChtululù 

Mi guardo la punta delle scarpe lucide mentre cammino verso la mia destinazione. Evitare le pozzanghere mi obbliga a goffi saltelli. Devo sembrare alquanto insicuro agli occhi dei pochi passanti nel mio incedere anfibio. Alzo lo sguardo sopra al bavero del cappotto, da sotto le luminarie appannate dei cinema della città mi scrutano gli attori da cachet milionari di Hollywood. Un pantheon di palestratissime divinità scandinave sta per essere risucchiato nel vortice del Ragnarok sotto lo sguardo glaciale di Cate Blanchett. Poco più in là, sessanta piani di onda anomala annunciano l’ennesima apocalisse come nei più ovvi scenari catastrofisti da Deep Impact in poi. Ghigno alla vista di quelle acque fanta-cheap rimasticate, ignaro degli abissi che mi attendono dietro le rassicuranti tende di velluto del Rossetti. Mentre ritiro il biglietto, un rigurgito acido mi riempie bocca e spirito di oscuri presagi. Le seppie in umido del pranzo. 

Approdo in quarta fila spinto dal flusso degli spettatori. Allo spegnersi delle luci, fisso per un attimo le stelle sul soffitto. Quando riporto lo sguardo sull’orizzonte, il mare si agita intorno a me. Un forte vento mi spinge verso un’isola brulla di pietra vulcanica sul cui unico promontorio si fronteggiano una capanna e un faro irto di pali aguzzi. Sento nel cuore un’inquietudine profonda, qualcosa di atavico e primordiale spinge prepotentemente per emergere dagli abissi del mio animo. Qualcosa che forse è sempre stato parte di me, parte di noi. Appena sbarcato, faccio conoscenza con il guardiano del faro, il signor Gruner. Un uomo rude, indurito dal vento e dalla solitudine dell’isola, più simile a una bestia che a un essere umano. 

Lo sciabordio delle onde non lascia tregua all’isola e ne rende i contorno taglienti come le pinne dorsali di certi pesci. Sembra quasi che il mare prema sulla terra per salirvi, per riprendersi ciò che un tempo era suo. Al calar delle tenebre scopro con orrore che la massa scura d’acqua che mi circonda non è l’unica a vantare dei diritti su quest’isola dimenticata da dio. Versi inumani e rumore di membrane che fremono risalgono la riva. Nel buio intravvedo creature dalle forme antropomorfe, che si muovono ricurve, le mani a toccare il suolo, strisciando verso il mio rifugio. Frammenti di pelle bluastra e umida si avvicinano nella notte tra tremendi gorgoglii. Mi sono addosso. Lotto disperatamente, sempre sul punto di impazzire, in bilico tra la realtà e l’incubo folle che mi circonda. Finalmente il sole sorge sulle mie membra stremate. Le creature si ritirano. 

Esco e mi rendo subito conto che la capanna è distrutta. Se voglio sopravvivere alla prossima notte, non mi resta che cercare rifugio al faro, di cui ora comprendo le fortificazioni. Gruner si rifiuta secco di farmi entrare ma più forte della repulsione che prova per la compagnia è il bisogno dei fucili e del tabacco che posseggo. Finalmente posso crollare al sicuro, sulla pietra gelida, al piano terra della costruzione. Faccio incubi sfocati, in cui mani palmate mi trascinano in antri sommersi. È in questo terrore che mi accorgo di qualcosa di umidiccio e freddo che mi accarezza la mano. Apro gli occhi e la vedo. La creatura è sopra di me con la sua pelle viscida, gelida, disgustosa. Gruner interviene colpendola con un bastone. Quell’abominio sembra essergli familiare, la rimprovera come si trattasse di un cane. Lei si accovaccia tremante ai suoi piedi. 

Con il passare dei giorni, imparo a conoscerla ma soprattutto imparo a conoscere Gruner. Condividiamo perlopiù in silenzio il trascorrere del tempo, di giorno razionando i viveri e fortificando il faro, di notte combattendo spalla a spalla contro l’immancabile attacco delle creature abissali. Lei segue la nostra quotidianità con la docilità di una bestia ammaestrata, senza mai ribellarsi né tentare di fuggire. I suoi occhi, ricoperti da una doppia membrana sottile che si schiude lattiginosa come la palpebra di un proteo, esprimono sentimenti che non riesco a decifrare con chiarezza, anche se intuisco essere simili ai nostri. Il mio compagno la tratta come una schiava, sfogando con mio grande disgusto tutti i suoi istinti peggiori su di lei, compresi quelli più bassi e bestiali. 

Passano così giorni, settimane e mesi. Siamo sempre più stremati e combattiamo a fatica. Gruner dà sfogo a tutta la sua pazzia nella violenza delle notti che si susseguono. Di giorno non c’è alcuna differenza. Quell’uomo sembra non avere nessun freno. Non vedo più in lui un briciolo di umanità, sebbene a tratti mi chieda quanta ne sia rimasta in me. La sua compagnia mi provoca lo stesso ribrezzo che un tempo provavo per la pelle fredda della creatura. Mi ritrovo a vagare tra gli scogli alla sua ricerca come se io stesso non appartenessi più alla mia specie. Vivo in un costante orrore. Allucinazione e realtà si confondono come il sangue nelle acque nere. Questo vortice non avrà mai fine, ormai appartengo all’isola, appartengo a lei… 

Si riaccendono le luci in sala. Zigzagando tra la folla, vengo attratto dall’uscita come una falena dalla luce. Mi sento chiamare: “Gruner! Come stai? Ti è piaciuto il film?”.  Alzo la mano in un saluto e declino ogni invito a proseguire verso una serata di beneducate frivolezze. Prima di andarmene, faccio il mio dovere e do un voto al film. Un bel 5/5. Alzo il bavero del cappotto e mi avvio verso casa. Non piove più ma la notte è umida. Allungo il passo per arrivare presto. Devo prepararmi per il solito tran tran. Dal frigo tiro fuori i sardoni del giorno prima, li sbatto su un piatto con abbondante maionese Thomy. Davanti alla finestra, scruto nel buio il golfo di Trieste e attendo come ogni notte con la doppietta sulla spalla. I sardoni sono freddi e difficili da buttare giù e lei mi manca più che mai. 

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