Terza Pagina – #5

Foto per Il sorriso di Buddha

Il Sorriso di Buddha: racconto di Ettore Spada

Dall’ampia terrazza dell’ostello Terra Brasilis, il Centro si distende alla vista in tutto il suo splendore moderno: la Catedral Metropolitana de Sao Sebastiao cattura lo sguardo con la sua forma tozza e possente di piramide, avvisando che da lì in poi inizia il suo regno, la Cinelândia, tutta una costellazione di grattacieli di vetro, lucidi o a giochi di scacchi, di teatri, di musei nazionali, fino al porto e alla stazione degli autobus. Quello che il Centro non vuole esibire, vuole nascondere con quella distanza, sono alcuni vicoli squallidi e luridi, qualche edificio diroccato dagli intonaci scrostati, persiane a brandelli e fregi dinoccolati nel loro sfaldarsi. Tutto questo universo di decadenza malamente celato in altre zone della citt motivo di vergogna quasi, Lapa lo ha accettato dall’inizio (o almeno questo un pensiero), puntando su di esso fino a renderlo un aspetto affascinante ed essenziale nel suo essere movida per tutti i gusti: il locale elegante, il bar sportivo, le innumerevoli discoteche lungo av. Mem de Sá, si perdono in vicoli e locali sempre pigretti e oscuri, ma dai quali non si rifugge con sdegno, anzi.

Seguendo gli Arcos da Lapa e lasciandosi il Centro alle spalle, incamminandosi idealmente verso il quartiere di Santa Teresa, gli schiamazzi non possono che portare in via Manuel Carneiro. Gli Arcos, prima di confondersi nelle pendici della collina trasferendo i suoi binari in qualche vicolo acciottolato, si fanno impianto scenografico a due mosaici dove la scritta Lapa troneggia, rendendosi toilette di lusso per i numerosi ubriachi. Proseguendo, infine, si raggiunge la celebre Scalinata Selarón. La fatiscenza, impreziosita da locali pittoreschi e colori brillanti, diventa fascino.
Questa è Lapa, fra il Centro e Santa Teresa, tra il quartiere degli affari, delle banche, dei musei e quello residenziale, tranquillo, discreto; un torrente di luci e vociare. O almeno tale era nell’estate 2014.

Spense la sigaretta. Era rimasto il solo turista ad occupare i divani della terrazza. Il non affascinante signore (o particolarmente brutta signora, ancora non l’aveva capito) che si occupava delle pulizie ridacchiava tra scatturato dagli auricolari e un piccolo schermo. Niente da fare, se voleva anche lui divertirsi, o quantomeno svagarsi, doveva uscire. Si vestì lentamente e con cura, salutò l’essere ridente, tondeggiante e sereno come un piccolo Buddha sudamericano, asessuato per ora come un Dio occidentale, che tutto preso nel suo candore divino salutò con un gesto di indifferente benedizione. Uscì in Rua Murtinho Nobre, le bougainville ciondolavano radenti i muri scrostati dei giardini, l’umidità permeava ogni spora di notte. Decise di non cimentarsi nella scoscesa Ladeira de Santa Teresa e proseguire nella direzione opposta per Rua Dias de Barros. Camminava con le mani in tasca, affacciandosi ogni tanto a un muretto dal quale si scorgeva parte del Centro, Saúde e Gamboa, godendosi il digradare dolce della vegetazione e le prime case prima della ressa di luci. Superò il murale “queremos o nosso bonde” dove Neymar Jr., David Luiz, Hulk, Julio Cesar, Oscar, Fred e gli altri giocatori della nazionale brasiliana viaggiavano vittoriosi sul tram giallo che, appunto, il quartiere rivendicava e voleva in funzione. La strada si allargava formando una piazzetta da cui si diramavano altre piccole strade e un paio di bar si affacciavano, modestamente affollati da giovani e signori intenti a chiacchierare di calcio e altro. Entrò nel primo e ordinò un paio di birre, nascondendosi in un angolo e osservando la clientela vociante. Uscì: per ora il piccolo Buddha si divertiva sicuramente più di lui. Il segreto di tanta serenità doveva essere probabilmente legato a qualche tarlo interiore, chi ne ha e chi no, chi si lascia confondere dal suo lavorio e chi sa zittirlo, magari passandoci sopra con l’aiuto di un paio di cuffiette. Mentre pensava queste cose seduto alla pensilina, notò che poco sopra la piazzetta, da un cortile, giungevano le note di musica locale suonata dal vivo. Una cosa vale l’altra – pensò – che io stia a pensarmi addosso qui o lì non fa alcuna differenza, se non che lì l’ambiente sembra più interessante. Si incamminò verso quel cortile, all’entrata un paio di ragazzi vendevano i biglietti per entrare. Lo guardarono male, lui, da solo, impacciato nel suo essere straniero; accettarono i suoi soldi accennando un sorriso leggermente imbarazzato. Salì la piccola scalinata che portava al locale, capì l’imbarazzo dei ragazzi di sotto quando vide che sotto un porticato addobbato con qualche telo colorato uno stuolo di coppiette danzava ridente mentre la piccola band suonava in un angolo: cantante con tamburello, chitarrista, violoncellista e… non capiva cosa fosse il quarto strumento. Approfittò della zona “sfiniti” per confondersi il più possibile e non farsi vedere lì, solo e spaesato. Accese una sigaretta. Lì dov’era poteva benissimo essere confuso per il compagno di quella ragazza imbronciata sedutagli accanto. Sì, sicuramente qualcuno li avrebbe potuti prendere per una coppia appena entrata in crisi, solita storia: lei vuole che lui la porti a ballare, lui che non sa ballare e non gliene frega nulla di imparare (del resto, amore, non sei neppure così bella da giustificare un qualunque mio sforzo in questa direzione) ma lei ci tiene così tanto che lui accetta comunque, sa che non si divertirà e così è e finisce che nemmeno lei si diverte. “Buon rientro a casa, piccioncini, ancora meglio se me ne torno a casa da solo e tu pure, ti dirò. Anzi, per darti pure quest’ultima botta – col cazzo che ci volevo venire io qui – mi prendo una birra e faccio lo stronzo ignorante cafone, che lo stesso da stasera non ci parliamo più”. L’aveva pensata così bene che quasi finì col crederci. Si allontanò da quella sedia e da quella ragazza (ma sì, brava, fai pure finta di non accorgerti che vado al bancone, come fosse già finita tra noi… dopo ne parliamo e vedi come che ne parliamo… io, intanto, ho dalla mia la solidarietà e il rispetto di tutti i maschi qua dentro, io i cojones di dirti “Col cazzo che imparo a ballare” li ho avuti… fate largo, buddies, e piano con le pacche sulle spalle che mi rovinate la giacca di pelle) e raggiunse la cassa. Ci aveva provato, a divertirsi, non gli era andata così bene e si era pure lasciato con la ragazza, e dire che avevano passato dei gran bei momenti. “Autoironia, baby, è così che si va avanti nella vita, altrimenti uno è bello che spacciato dall’inizio – recitò fra sè e sè sedendosi qualche sedia più in là – Domani questi qui parleranno del tipo che è venuto da solo a una serata di coppie che ballano o di quello che ha litigato con la sua fidanzata a inizio serata, o ancora meglio di quello che si è fatto tre birre da mezzo nel giro di mezz’ora e adesso sembra uno straccio, altro che Buddha. Ma io intanto li ho coglionati, ‘sti fessi, tutti quanti… mi son divertito alle loro spalle… e un poco anche alle tue. Sì, sono uno stronzo, baby, ma è così che si va avanti nella vita, uno stronzo col dono dell’autoironia è un eletto, bellezza. Ma tu nemmeno mi ascolti, va, va, ecco che arriva il tuo vero ragazzo. Fatti due domande su dove è stato finora. Ora sorridi, eh? Va beh, buon per te. Vorrei dire che è stato bello stare con te questi cinque minuti ma non è vero, mi hai fatto venire in questo cazzo di posto e non so neanche ballare, io, prossima volta col cazzo, resto a casa col piccolo Buddha in terrazzo…”
La musica continuava a scorrere intorno, la gente ballava, la ragazza vicino la quale si era seduto poco prima era stata invitata a danzare. Sorrise catturato dal suo delirio interno, per la sua recitazione da maestro. “Virginia Woolf mi fa una pippa a me, dammi due birre e vedi che stream of consciousness ti tiro… ma sono stanco ormai. Anche la Woolf doveva sentirsi cosìdopo aver scritto tutte quelle chiacchiere, anche Joyce, anche Ulisse. Sarà ora che ce ne andiamo a letto, che dici? Di’ ciao ai tuoi amici qua. Ciao, ragazzi, un bacione, siete stati dei grandi… e vaffanculo”.
Tornò lemme lemme all’ostello, ciondolando per la via ormai deserta. Era uscito; quantomeno poteva dire di essere uscito, aver bevuto qualcosa, aver ascoltato della buona musica, essere stato in buona compagnia di se stesso per una volta. Le chiavi entrarono nella serratura con uno sfregamento metallico, la porta si aprì lentamente. Tirò fuori una sigaretta dal pacchetto e si diresse in terrazzo. Il Centro era sempre là davanti con le sue luci e il vociare che saliva da Lapa, soltanto l’omino non c’era più, scomparso assieme a schermo e cuffiette. “Anche i Buddha ogni tanto hanno riso abbastanza e se ne vanno a dormire… ora vacci anche tu” pensò.

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