di Michela Beltrame
(Immagine di Silvia Mengoni)
Ho aperto un bar. Il mio bar. Ero da solo all’inizio, mi stavo appena abituando all’idea di avere un’attività tutta mia. L’ho chiamato “Bar al palo”, ne dicessero quello che volevano, a me il nome piaceva. Avevo anche una finestra a illuminarmi il bancone…
“Potevi pensarci un po’di più, eh? Chi vuoi che venga, con un nome del genere?” aveva detto Luca.
“È per il posacenere, lì di fianco: l’ho immaginato come un palo… ci sta, no?” Mi ero subito pentito di avergliene parlato: è la classica persona che fa tante cose, ma va al fondo di poche.
L’ho aperto perché cercavo qualcosa da fare nella vita. Avevo bisogno di una cosa mia, in cui poter decidere come muovermi senza che per forza me lo indicassero. Lavorare da dipendente per tutti quegli anni mi aveva tolto l’entusiasmo: mi ero sempre ritrovato in ambenti particolari, difficili, con poca armonia. Così, nel 2021, dopo il Covid, ho pensato di riprendermi qualcosa che avevo l’impressione mi fosse stato tolto, ovvero la libertà di decidere. Avevo dunque iniziato con l’affermazione lavorativa, e per mettere in pratica questa scoperta recente, avevo deciso di prenderci confidenza, prima cambiando lavoro, poi creandomene uno tutto mio. Non era stato facile trovare un locale ma appena saputo di un posto qua vicino, l’avevo comprato nel minor tempo possibile.
L’indipendenza è una forma di libertà ma forse non è tutto, pensavo la mattina, da una settimana a quella parte, chiudendomi la porta di casa alle spalle. E allora cosa è tutto? Sia chiaro, io non ho mai apprezzato la filosofia; a fine anno pregavo sempre che quel 4 e mezzo diventasse magicamente un 6. Ma questo tutto viene sempre richiamato, da qualsiasi disciplina abbracci la concezione umana. L’uomo vuole tutto, e non gli basta mai.
In questi giorni sto provando a trovare la mia risposta a questo tipo di domande. Mi ha colpito a tal proposito una coppia insolita di clienti: un ragazzo, nero, che porta in carrozzina un anziano, bianco. Ogni tanto si fermano qui da me, ordinano, e rimangono per una mezz’oretta. Poi escono, guardano il mare per un po’, e se ne vanno. Ho omesso un particolare: l’uomo bianco fa difficoltà sia a muoversi che a esprimersi chiaramente, e l’altro si impegna a interpretarne le parole. I due si capiscono alla perfezione con un linguaggio tutto loro. Ogni tanto guardandoli mi chiedo: cosa è, tutto, lì? Dopo averci riflettuto, mi permetterei di dire che lì il tutto è la dolcezza: la dolcezza con cui chi è abile decide di trattare chi invece non lo è. E ciò accade in maniera non richiesta e inaspettata, tale da arrivare fino a me che li guardo. Non c’è alcuna ostentazione nel loro rapporto, per cui uno voglia far vedere quanto sia bravo a trattare l’altro. È un interesse sincero.
Tutto questo mi colpisce ma più che altro me ne vergogno: mi sento tanto debole, scalfibile quando genero pensieri simili. Però, quando ho un momento, esco anch’io a guardare il mare, e c’è qualcosa che mi attrae, sempre. Vedo i gradoni che scendono fino al fondo, la schiuma dell’acqua che vi si infrange. Avvicinandomi, sento uno scroscio continuo. Percepire, amare tutto questo è impagabile. Arrivare quasi a commuoversi, a sorridere, anche se ogni tanto me ne vergogno, è qualcosa di cui a tratti vado fiero. Alla faccia di tutti i Luca di questo mondo. Se penso che a quelli come lui tutto ciò li lascia indifferenti mi vien la rabbia… Ma non importa, tolgo una mano dalla tasca per ravvivarmi i capelli, alzo lo sguardo, sorrido: l’aria salmastra sembra un regalo. Torno verso il bar, sereno: ogni tanto riesco a dirmi che la vita va bene così.