di Leonardo Pelloni Quintabà
(Illustrazione di Silvia Mengoni)
Merath correva con due degli altri bambini sulla morbida terra di Noetorogio, fuori dal villaggio, verso la casa di nonno Ebuh.
Erano i primi oggi, perché erano stati i più veloci, sia con i libri che con i cesti. Agli altri bambini era toccato badare ai cavalli, che erano molto più divertenti, ma anche impegnativi: era difficile finire con i cavalli prima del decimo Soffio, a volte perfino l’undicesimo.
Così erano solo in tre: lui, Siva la svelta, che come al solito lo aveva superato, i piedi nudi e abbronzati che premevano avidi la terra soffice e le gambette sode scalpitanti sotto il saio, e Unemeo, che invece andava sempre piano, perché pensava troppo e non riusciva a fare niente veloce.
Erano uno strano trio: Siva sempre coraggiosa, la più forte, la più spavalda del villaggio, Unemeo il genio, la mente brillante, il suo nome significava “Naso-nei-libri”- parola in mascanese solitamente usata come un complimento, e poi lui, Merath, che invece era un bambino proprio normale. Non sapeva perché gli altri due gli dessero così retta, non capiva proprio perché fossero amici suoi. Ma a lui stava bene così, anzi, non li avrebbe scambiati nemmeno col miglior cavallo delle Piane.
“Corri Umeneo, se arriviamo per primi magari nonno Ebuh racconta una storia solo per noi!” gridò Siva davanti, tutta affannata.
Sotto i capelli biondi e gli occhiali spessi, Umeneo aggrottò la fronte, negli occhi uno sguardo determinato, e accelerò come un pazzo, quasi lo sorpassava. Per una storia di nonno Ebuh avrebbe fatto di tutto, la bambina lo sapeva.
Anche se erano di fretta, quando passarono ai bordi della schiena di Noetorogio, si fermarono un attimo a guardare di sotto, duecento metri più in giù, a vedere le gambe colossali della Bestia sollevarsi e allungarsi poderose per un tempo che sembrava infinito, prima di schiantarsi sulle Piane, l’erba che fuggiva sotto terra in giganteschi cerchi tutto intorno.
Erano nati e cresciuti su quella schiena sconfinata e quel ritmo era parte di loro, come i tocchi leggeri dei loro piedi sul dolce humus, come il respiro veloce dei polmoni, come il battito dei cuori. Nelle Lunghepiane, arse da un sole impietoso o battute dal vento gelido, dove la Magia era impazzita e non c’erano alberi a proteggerti, le Bestie erano l’unico modo di sopravvivere per il popolo dei Mhas’Kahn.
Guardavano da meno di due Passi quando una consueta vibrazione iniziò a riverberare dal suolo.
Siva li guardò a occhi sgranati, Merath scosse Umeneo, che come al solito si era perso in qualche pensiero, cullato dai tonfi rassicuranti dei piedi di Noetorogio, ed esclamò teso: “È quasi il decimo Soffio!!! Via, via, o gli altri arrivano prima!”
I tre iniziarono a correre e la Bestia sbuffò pesante dal cratere, dietro di loro, al centro del villaggio. Il Soffio esplose in una colonna vaporosa verso il cielo e discese sulle mille piante e alberi, sopra la terra scura come nube gentile, lasciando tracce di rugiada sulle foglie tenere e le dure scorze; gioendo per le fresche gocce sulla pelle, Merath si concesse un attimo per pensare a Noetorogio e ringraziarlo per l’acqua, la foresta e la vita tutta.
Pochi Passi dopo erano finalmente davanti la casa di nonno Ebuh, accaldati e sudaticci, ma con un ghigno vispo stampato in faccia e gli occhi accesi di gioia.
La porta era aperta e il vecchio aspettava già sulla soglia. Era a petto nudo, come ogni uomo dei Mhas’Kahn (e anche molte donne) durante la torrida estate, vestito solo di pantaloni morbidi di etesu, un tessuto leggero e resistente ricavato dalle foglie della pianta omonima, assai comune nelle Lunghepiane. Le sue forme si erano ammorbidite con l’età, ma le rughe che si aprivano sulla pelle scura non riuscivano a nascondere le braccia ancora forti e le spalle ampie. Il viso segnato da pioggia e sole duro era allegro e vitale, le guance lisce circondavano un sorriso che pareva troppo giovane sotto quegli occhi discromici, uno nero e uno giallo, così anziani, metodici, distanti.
“Guarda guarda, sembra che qualcuno sia stato veloce con i cesti oggi”, disse con fare distratto, disinteressato. I tre rimasero in attesa, in assoluto e attentissimo silenzio.
“Chissà, mi domando se sia il caso di raccontare una storia in più, oggi, una storia speciale”, continuò vago, godendo della trepidazione dei suoi spettatori, “ma per essere così veloci, di sicuro avete saltato lo studio oggi, o magari intrecciato i vimini di fretta e…”
I tre esplosero in una cacofonia indignata e offesa: “Non è vero! I cesti li…” iniziò Siva, coperta da un “Non è giusto, abbiamo corso come puledri per…” urlato da Merath, soffocato da un incredulo “Io non salto MAI lo studio!” di Umeneo, esterrefatto e oltraggiato.
Nonno Ebuh sbuffò in una poderosa risata, un vociare profondo e sincero, che piano piano contagiò anche i tre, e i visi aggrottati tornarono sorridenti: ora sapevano che avrebbero avuto l’agognata storia.
“Va bene, va bene”, nonno Ebuh si staccò dalla soglia e si mise seduto sotto l’ombra del largo tetto, “ve la siete meritata” fece una breve pausa, guardandoli negli occhi uno ad uno, assaporando l’attesa e poi iniziò:
“È una storia di tanto tempo fa, del Secondo Regno degli Uomini, quando oltrebosco la terra tremava sotto i passi degli eserciti. È di prima della nascita di Novaterra, che ora chiamiamo Nuvera, prima che i Giatoni innalzassero l’orrida Torre, prima della distruzione dell’Albero. È una storia dura, come tutte le storie vere, ed è una storia triste, come molte delle storie vere. Siete pronti?”
I tre annuirono senza fiatare, già pendevano dalle sue labbra.
Nonno Ebuh guardò un attimo al suolo, come cercando di ricordare qualcosa, poi fu pronto.
“Ciò che sto per raccontarvi viene dal diario di Johvtan Reddii, soldato semplice del quarto battaglione di Anstania, e se la memoria non mi inganna, fa più o meno così:…”
Prima storia.
“Nono giorno di Maleth,
Milletrecentoventuno d.A.,
Silvaria, provincia di Anstania.
Ci hanno tenuto in marcia per l’intera giornata e alla fine non riuscivo a sentirmi più i piedi. Il terreno sarebbe pure morbido, qui alle soglie di Etterna, se non fosse per le radici dei colossi. Il più grande di quelli che abbiamo visto oggi sarà stato alto almeno trecento metri, la chioma ampia come un villaggio chiudeva il cielo e la radice più piccola avrà avuto tre metri di diametro.
È un costante sali e scendi in quel groviglio, e alcuni alberi bisogna evitarli in toto. Abbiamo perso dieci uomini sotto un tasciente che non avevamo visto, perché era ancora piccolo e coperto dal tronco di un cortescaglio gigantesco. Ho avuto fortuna, la terza squadra era indietro e abbiamo visto la scena da lontano: i mille sanguinari attaccati ai rami hanno spalancato le membrane e si sono fiondati sul plotone e subito sono iniziate le grida. Sono creature piccole, le ali simili a tenere foglie e i piccoli arti esili come ramoscelli, ma sono forti, orribilmente forti. Li ho visti sollevare un soldato da terra e smembrarlo in aria, senza sforzo, in un battito di ciglia. Hanno portato i resti all’albero, mangiando beati sui rami, la foresta piena di pigolii deliziati. Non erano molti, perché il tasciente era ancora giovane, e dopo aver preso dieci di noi erano soddisfatti e ci hanno fatto passare oltre. Gli uomini avrebbero voluto bruciarlo, quel dannato tronco del cazzo, ma la guida si è messa in mezzo e non abbiamo avuto scelta: non si discute con un elfo, non se ci tieni alla vita.
Il resto della giornata è stato il solito su e giù, le gambe distrutte e i piedi peggio, e ora siamo accampati sotto il tronco di un colosso, non so che tipo di albero sia, e la guida conosce solo l’impronunciabile nome elfico. Dice comunque che non sia pericoloso, anzi, ne parla con una sorta di ammirazione e rispetto, ma è difficile da dire con quelli. So solo che la pianta è grossa anche per un colosso e la radice sembra chiazzata, malata quasi.
A noi basta che ci ripari dagli sguardi dei nemici e delle creature del bosco. E magari dalla pioggia.
Sembra che pioverà domani. Il fango era proprio quello che ci mancava.
Tredicesimo giorno di Maleth,
Milletrecentoventuno d.A.,
Silvaria, provincia di Anstania.
Dopo due giorni di pioggia oggi è tornato il sole. Nonostante l’acqua e il fango e la stanchezza, inizio a capire perché gli anstaniesi amino Etterna. È pericolosa, dura e selvaggia, ma bellissima. Lo scroscio delle gocce su mille e mille foglie diverse, il canto di infinite creature, i fiori e il profumo dei tronchi umidi: questo posto è vita, nel suo stato più puro. Odio le radici, il terreno scivoloso, le salite e gli alberi assassini, ma non posso non ammirare la perfetta bellezza che mi circonda.
Gli altri non lo capiscono. Ridono quando gliene parlo e sputano per terra. Dicono che sono un mercenario ora e ai mercenari importa dei soldi e dell’alcool e delle puttane, il resto è roba da “testepiene”. Dicono che invece di guardare tanto per aria dovrei stare attento, che altrimenti la foresta mi mangia e sputa fuori solo le ossa, e forse hanno ragione.
Neira mi manca da morire. Chissà come stanno gli altri del villaggio.
Quindicesimo giorno di Maleth,
Milletrecentoventuno d.A.,
Silvaria, provincia di Anstania.
Oggi sono arrivati gli elfi. Eravamo accampati in un vasto avvallamento fra due enormi radici, il legno gigantesco alto come una muraglia su due lati, dietro l’infinita colonna del tronco. Era una buona posizione, perfettamente difendibile, ma eravamo in guardia comunque. Cazzo siamo sempre in guardia in questi giorni.
Non li abbiamo visti lo stesso.
Un intero battaglione ci è comparso davanti, come usciti dalla terra.
Dopo un secondo di panico abbiamo capito che erano solo rinforzi. Gli anstaniesi ci sono abituati, ma la maggior parte delle nostre truppe sono solo mercenari e non è stato facile fargli deporre le armi. Io ho abbassato subito il fucile: che senso ha combattere contro un battaglione di quelli? Nessuno di noi ne sarebbe uscito vivo. Solo ad averli vicino uno sente una certa inquietudine, un senso di oppressione palpabile, una paura schiacciante.
Riuscirò a dormire stanotte?
Ventesimo giorno di Maleth,
Milletrecentoventuno d.A.,
Silvaria, provincia di Anstania.
Abbiamo aumentato il ritmo, abbiamo marciato fino a notte fonda e non ho avuto la forza di scrivere. Presto saremo al fronte, dicono. Non voglio pensarci.
Ho capito perché non riesco a stare vicino agli elfi: sono troppo. Troppo agili, troppo veloci, troppo belli, troppo tutto. Sono meglio di noi in qualsiasi cosa, ma sono indomiti come bestie. È una combinazione terrificante. Si muovono come ballerini, le code sinuose danzano coi loro passi, le femmine sono così sensuali, perfette, che non si può non desiderarle. Diventano un’ossessione, suscitano un desiderio malsano, viscerale.
I maschi sono puro terrore. Ogni passo è un’affermazione decisa di superiorità, ogni sguardo una sfida aperta, anche quando distratti ti camminano affianco. E nessun umano potrebbe vincere quella sfida.
Non so come facciano i nostri nemici a combattere contro questi mostri perfetti, ma sono contento che siano dalla nostra.
Spero che ci pensino loro, arrivati al fronte. Ho paura.
Neira, ti amo.
Ventiduesimo giorno di Maleth
Milletrecentoventuno d.A.,
Piane intorno al fiume Ere, provincia di Anstania.
Non so se dovrei scrivere quello che sto scrivendo. Cosa succederebbe se Neira dovesse trovare il diario, fra qualche anno, quando sarò tornato a casa e saremo finalmente sposati?
Come potrebbe capire? Non ci capisco niente nemmeno io…ma devo, devo scriverlo, devo, prima che mi scivoli via dalla mente: quando ci penso, la memoria è confusa, labile, come se cercassi di afferrare tenue un vapore acqueo. Il ricordo ha la stessa fuggevole sostanza di un sogno.
È iniziato tutto con il canto.
Ci siamo accampati, come al solito, abbiamo abbandonato la protezione degli alberi, marciando verso sud. Stavamo mettendo le tende e poi…le voci. Oh quelle voci, quelle voci, come posso descrivere una cosa simile? Chi può capire, se non chi li ha sentiti?
Gli elfi cantavano.
Era vita, vita pura, e morte, terribile morte e sangue. Quella lingua impossibile era così chiara, come una serie di immagini che ti spaccano la mente. Ho pianto, oh come ho pianto, e ho sentito lo strazio di essere lontani dalle fronde e dai tronchi, e il peso di una vita eterna e infinita e il dolore di chi vede ogni altra cosa morire.
E poi hanno iniziato a ballare. Tutti ci siamo alzati, come ipnotizzati, camminando come una schiera di stupide falene attirate dalla luce. Le femmine danzavano al centro, agili come gatte, maestose come volo di drago, sensuali come puttane. All’improvviso ero nudo.
Ho visto gli altri tentare di raggiungerle, ma i maschi li tenevano lontani. Pochi decisi colpi e anche Roguto, il più forte di noi, è caduto a terra privo di sensi.
Ero io, solo, al centro di quelle forme impossibili.
Davanti a me una creatura bionda, la soffice coda nera le carezzava voluttuosa i fianchi, gli occhi erano brace, il suo corpo era sesso. Mi si preme addosso, calda, decisa. Una sola frase, pronunciata con quel tono disumano, limpida come acqua, dura a tratti come deserto e ossa: “Il mondo attende un figlio da noi, Johvtan Reddii, figlio di Nator e Inea Reddii, sangue di Milüen e Trabon.” E poi un sogno di carne e piacere indicibile, di labbra rosse che mordono e baciano ogni centimetro, e sono dentro di lei e il resto…non ho le parole. Nemmeno se fossi un poeta, un bardo, nemmeno se fossi padrone di ogni sillaba e suono potrei raccontare il resto.
Devo dormire, devo dormire.
Ma la voglio, la voglio di nuovo, è come un marchio a fuoco tra le pieghe della mente!
No basta, basta, Neira, perdonami, perdonami.
Ventiduesimo giorno di Maleth
Milletrecentoventuno d.A.,
Piane intorno al fiume Ere, provincia di Anstania.
Non ho chiuso occhio ieri notte. Riuscivo a pensare solo a lei, all’elfa.
Oggi mentre marciavo ero quasi delirante e ho tentato di avvicinarmi al loro battaglione. Nessuno lo fa, mai. Mentre camminavo verso di loro, potevo sentire gli sguardi degli altri soldati, alcuni curiosi, altri intimoriti, qualcuno carico di disprezzo: dopo l’altra sera temono e odiano gli elfi ancora più di prima. Si sono sentiti inermi una volta, incapaci di resistere alle elfe, e poi di nuovo, quando i maschi li hanno respinti senza sforzo, lasciandoli svenuti o doloranti al suolo, nudi e feriti nell’orgoglio.
Ma non mi importava: dovevo trovarla.
Mi hanno fatto passare, ho iniziato a muovermi tra le loro file. Non rispettano un ordine di marcia, sono coesi, ma divisi in piccoli gruppi. Parlano fra loro, si spostano, non sembrano tesi. Mi hanno ignorato completamente. Poi l’ho trovata.
Credevo che, appena l’avessi vista, sarei impazzito per la voglia, per la brama di prenderla di nuovo, sedotto senza scampo da quelle forme; ma era così regale, così incredibilmente distante, che mi sono solo sentito inutile, fragile, insignificante. Vestita solo di una leggera stoffa nera che appena le cingeva il seno e il bacino, a piedi nudi sulla piana, era più elegante di una regina.
Si è girata, mi ha visto, ha sorriso e io ho dimenticato il dolore, la stanchezza, lo sconforto. Quella morbida bocca rossa che si spalanca appena a mostrare i bianchissimi denti, quei canini più lunghi che sembrano mordere leggeri le labbra, gli occhi selvaggi, color fuoco vivo, bisbigliano cose impensabili e promettono piaceri inumani: chi può resisterle?
“Avvicinati svelto Johvtan Reddii, lasciaci camminare sotto il sole vitale insieme!” ha gridato, con la gioia di una bambina. E così ho fatto.
Siamo stati fianco a fianco tutto il giorno, io perso nel suono della sua voce, nel suo profumo, e lei ridente e allegra. Di quando in quando con un tocco leggero mi sfiorava la guancia, correva sulla mia schiena stanca, mi carezzava le labbra, o la coda soffice e lussuriosa mi stringeva i fianchi, come a tirarmi a lei.
Ha parlato della vita tra le fronde di Etterna, della caccia e dei canti, delle più svariate creature, e di altre cose che non ho sentito, perché ero perso nelle note delle sue parole, a fissarla inebetito.
“Come ti chiami?” le ho chiesto, dopo aver trovato il coraggio di interromperla.
“Non ho un nome per quelli della tua lingua, sciocco” ha riso come rugiada “e nessuno di voi può pronunciare la nostra”.
“Ti prego, dimmelo lo stesso”.
Ogni traccia di sorriso l’ha abbandonata. Impassibile come una statua ha pronunciato qualcosa nella sua lingua, mille fonemi e suoni impronunciabili uno sopra l’altro,organici e distinti. C’erano note di fiume e montagna, il soffio del vento su un picco innevato, il grido di una bestia sconosciuta, gocce d’acqua leggere in una grotta; e in sottofondo una lama nel petto, un bisbiglio velenoso, una durezza incrollabile.
Ho avuto paura di lei. Deve averlo visto, perché si è avvicinata e mi ha baciato.
Ora è qui vicino a me. Dorme sotto il cielo stellato. Siamo ancora nudi, ma non mi sembra stano. Gli altri elfi non ci hanno nemmeno guardato e i soldati sono troppo distanti per vederci.
Si è accovacciata al mio fianco come una gatta e anche adesso, quando con una mano la sfioro, non mi sembra vera.
Dicono che domani arriveremo al fronte. Come vorrei che questa notte durasse in eterno.
Ventiseiesimo giorno di Maleth
Milletrecentoventuno d.A.,
Piane intorno al fiume Ere, al fronte.
Non ho avuto più tempo di scrivere. Combattiamo, combattiamo da giorni, a volte attaccano anche di notte. Hanno più maghi di noi, ma noi abbiamo gli elfi. Sono un battaglione di appena duecento, ma valgono quanto un esercito: devastano il nemico con la magia, la terra si spacca e l’aria si incendia, carica di fiamme e fulmini, e poi si lanciano sui restanti come un branco di lupi, macellandoli. Li ho visti spazzare via interi corpi di armata da soli. Vinceremo, vinceremo.
L’elfa, la chiamo Eterea ora, è sempre con me.
Le truppe con cui sono arrivato sono state praticamente annientate, i pochi rimasti, io compreso, sono stati assegnati al battaglione elfico per comodità. Gli altri umani si tengono comunque sulle loro, ancora sospettosi, ma lo so che sono contenti almeno quanto me che gli elfi siano qua. Nessuno di noi sarebbe vivo senza di loro.
Eterea mi ha spiegato perché per loro è così facile combatter contro gli umani: non sono solo più forti e più veloci, dice che la vera differenza è il tempo. Sostiene che per gli elfi sia più “largo” (testuali parole), cioè che loro vivano anche un po’ di futuro insieme al presente.
Non ho capito molto bene come funzioni, ma all’atto pratico vuole dire che sanno quello che il nemico sta per fare con qualche minuto di anticipo. Dice che possono anche “mettere a fuoco”. E questo è un concetto ancora più strano: in sostanza, se guardano troppo nel futuro la loro percezione diventa vaga, come fosse solo un vago presentimento; ma se per contro “mettono a fuoco” solo i prossimi secondi, sanno perfettamente quello che sta per avvenire.
È per quello che la chiamo “Eterea”, dopo averla vista combattere contro cinque soldati contemporaneamente. Passava tra i colpi come se fosse incorporea.
Eppure quando scende la notte e siamo io e lei, tutto di lei è corpo e carne.
La amo come non ho mai amato prima.
Ventiseiesimo giorno di Maleth
Milletrecentoventuno d.A.,
Piane intorno al fiume Ere, al fronte.
Eterea mi ha svegliato a notte fonda. Quando ho aperto gli occhi,ero già dentro di lei, chiuso dall’alone dei suoi capelli d’oro. L’abbiamo fatto con disperazione, come due animali.
Era buio pesto e non riuscivo a vederla, eppure per un attimo mi è sembrato che piangesse.
Non so perché, ma ora ho paura e non riesco a dormire.
Lei è tranquilla, sento il suo respiro regolare vicino a me.
Deve essere solo la mia immaginazione, ma il vento si è alzato e pare quasi che odori di sangue”.
Nonno Ebuh fece una pausa, il volto imperscrutabile non lasciava trapelare nulla, gli occhi fissi, come a osservare delle pagine di un libro invisibile.
“L’ultima parte è frammentata e difficile da leggere. L’inchiostro è coperto dal sangue in più punti, la grafia irregolare. Questo è quello che si riesce a decifrare:
Vent giorno di Maleth
Milletr(ecentoventuno)
Non posso più respirare, lo…fa male e le fitte sono atroci…ultime parole
Lo sapeva (che mi sarei?) sacrificato per lei…usato…fuggita piangendo
In nemico stava…ma poi abbiamo…hanno portato un dio.
Niente può fermarlo.
Lei (era a) terra, un soldato ha sollevato la spada. Dovevo salvarla ero ferito mi (sono messo? sono gettato?) in mezzo
Il suo nome (era come) una lama nel petto
Perdo sangue, troppo
Sono svenuto. È sempre più
difficile svegliarsi
Mi ha detto
La nostra pro(genie) sarà la voce della vendetta
Non voglio morire
Neira”
Una storia aleggia nell’aria ancora per un po’, dopo la fine.
Così ci vollero diversi secondi prima che i tre sapessero di nuovo di essere sopra la vasta e morbida schiena di Noetorogio. Nonno Ebuh abbandonò il viso e le vesti da narratore e tornò a essere se stesso.
“Cosa abbiamo imparato da questa storia?” chiese come di consueto.
“Se volevi insegnarci come si fanno i bambini, quello lo sapevamo già!” rispose Siva sfrontata, anche se in realtà un poco arrossiva.
Era il suo modo per dimostrare che non era triste, che la storia non l’aveva nemmeno scalfita; ma Merath la conosceva, e vedeva bene che gli occhi erano lucidi e gonfi di emozione.
“Certo che lo sapete, siete figli dei Mhas’Kahn, non venite da oltrebosco!”.
(I popoli di “oltrebosco” – ovvero al di là del Boscosangue, si autoproclamano abitanti delle “Terre Civili” ma sono in realtà oggetto di scherno per i Mhas’Kahn, che li ritengono, tra le altre cose, ignoranti e praticamente analfabeti).
A Merath scappò un sorriso involontario: sua mamma gli aveva detto che la gente oltrebosco diceva ai bambini che era un drago a portarli al papà e la mamma, invece di spiegarli cos’era il sesso. Chi poteva credere a una baggianata simile? Erano proprio tonti, i bambini aldilà!
Vicino a lui Umeneo rispose concitato: “Abbiamo imparato troppe cose, nonno Ebuh, per elencarle tutte! Che nella guerra tra Anstania e la lega di Adena la battaglia decisiva avvenne nella primavera del milletrecentoventuno, o che gli uomini già ai tempi non riconoscevano più gli alberi malati dei Boschivi. Vuol dire che avevano già dimenticato il genocidio! Poi sappiamo ora che le creature di Etterna non sono come quelle del Boscosangue, non uccidono per divertimento, ma solo per mangiare, che…” nonno Ebuh lo fermò con un gesto gentile della mano.
“Non hai sbagliato nulla, Umeneo, e hai sbagliato tutto al tempo stesso. È bene imparare ogni informazione possibile, ma prima ancora bisogna saper capire ciò che è fondamentale”.
Merath si alzò in piedi, per chiedere il permesso di parlare. Il vecchio acconsentì con un cenno della testa.
“Credo che quello dovremmo imparare da questa storia è che gli elfi sono diversi”.
“Spiegati meglio” disse nonno Ebuh, ma già sorrideva.
“Credo che siccome sembrano come noi, ci viene naturale credere che siano come noi anche dentro. Cioè intendo anche nei sentimenti, nei modi di fare le scelte. Invece sono tanto diversi da noi quanto lo è un drago, o una scimmia o Noetorogio. Credo che la storia voglia dire che il dialogo, o perfino l’amore, sono sempre possibili, ma non bisogna dimenticare che gli altri sono altri”.
“E credi che questo si applichi solo agli elfi e alle altre razze?” chiese il vecchio, ora un ghigno sornione sul volto.
Era chiaro ora, qual era il punto. Merath rise di gusto, a vedere quella faccia rugosa vispa come quella di un malandrino: “No, nonno Ebuh, penso che valga un po’ per tutti”.