Terza Pagina. “Prima della guerra”

di Enrico Cattaruzza

Immagine libera di Enoch Nwakaku, crediti qui

La guerra non è più un concetto del passato, dice in un’intervista ai quotidiani internazionali il premier Donald Tusk, aggiungendo che ogni scenario è possibile. Dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era: l’era prebellica, afferma

(29.03.2024, da un’agenzia di stampa)

Sabato, le cinque di pomeriggio: Jan ancora non sa se stasera raggiungerà i suoi per la messa. Si annoia sotto il grattacielo parlando con Paweł e bevendo birra in lattina mentre attorno c’è chi strimpella e chi si lancia dalle scalinate con lo skate intralciando i turisti che escono confusi dalla metropolitana e le ragazze che si accalcano fuori dal centro commerciale respinte dalla vigilanza perché i negozi hanno appena chiuso per la Pasqua.

Jan sbuffa ma ok, non ha nemmeno voglia di star là con Paweł, di prendere tram o metropolitana, vuole camminare verso casa sotto il cielo di una primavera improvvisa, striato dalla scia di un aeroplano che pare scendere in picchiata verso i sobborghi, ma è solo un caccia lontano in esercitazione, conclude, ricordando le parole occhiate il mattino aprendo Google sul cellulare mentre cercava gli highlights della Nazionale appena qualificata agli Europei.

Saluta l’amico e si porta via una lattina non stappata, la incastra nel tascone.

La strada è larga e a tratti pedonale: ci sono i ristoranti tipici e il palazzo del Presidente a fianco dell’hotel Bristol davanti al quale due ragazze a turno si scattano foto buone per Instagram.

Più in là, verso il castello, Jan si ferma a ridere davanti a un artista di strada che fa rimbalzare bolle di sapone sul dorso della mano con grande serietà in un numero inedito e privo di senso che gli fa battere le mani per l’audacia e l’inventiva: ‘sto tipo è fuori totale.

Dal cancello dell’università non esce nessuno: il sabato di Pasqua non ci sono lezioni. Jan ancora non sa se iscriversi: per ora lavora in un ristorante messicano vicino al grattacielo, poi si vedrà quando avrà raccolto soldi o voglia, forse mai la seconda.

È bello e brutto non sapere cosa fare di sé stessi, si dice camminando nell’aria viva e sfocata, sospesa sull’acqua assieme al nuovo ponte pedonale riempito in fretta dai curiosi.

Come una sorpresa, la sera: un filtro più scuro sale dal fiume velando la piazza medievale dove venditori di bastoncini da selfie e spade laser aumentano l’entropia della gente che si ferma o prosegue verso i punti cardinali del centro storico.

È proprio strano in giro, oggi, c’è una vita piena fina a scoppiare, pensa, fermandosi davanti a una coppia matura che tenta un goffo ballo sudamericano accanto a uno stereo posato sui ciottoli. Continua a guardarli divertito mentre si siede sotto il monumento all’Eroe Nazionale, di fronte alla chiesa barocca su cui sciamano famiglie e anziani per la benedizione del cibo pasquale. Sembra che tutta la città stia andando a messa, o fa solo finta: la gente entra per uscire dopo un frettoloso segno della croce, una passata nell’acqua santa così veloce da non togliere dalle mani nemmeno il più esile dei batteri, si dice Jan, stappando la lattina che gli gronda schiuma sulle mani.

Tra lui e la coppia che ha smesso di ballare e ora si abbraccia vergogognosa e felice passa un uomo in sedia a rotelle, spinto da una ragazza insofferente, cicca in bocca. L’uomo non ha occhi ma due tagli al posto delle orbite, le gambe non ci sono più, mancano due dita alla mano destra, vuole fumare ma non riesce a tenere l’accendino ed è costretto a fermarsi sebbene l’accompagnatrice vada avanti per mostrargli che è stufa.

Possibile che la guerra nel Paese vicino abbia già un reduce così malridotto? si chiede Jan. Sì: non è difficile contare due anni. La ragazza torna per accendergli ‘sta sigaretta: non che il mutilato gioisca, ma almeno riprende a spingere la carrozzella, e sparisce dalla vista.

Jan scatta in piedi: non ne può più di stare seduto. Quando c’è tanta gente se bevi all’aperto nessuno ti rompe le palle: può stare tranquillo e proseguire sul lungofiume dove la maggior parte dei coetanei ha già una birra o qualcosa di più forte in mano, e si sente odore di erba, buonissimo odore di erba.

Oltre il fiume gli alti palazzi dei quartieri popolari sorvegliano una pianura estesa fino a da dove arrivano i profughi: molti hanno la sua età e lavorano anche loro nei bar e nei ristoranti del centro, mentre chi ha studiato viene preso a pochi soldi dalle aziende di informatica. Sono ragazze, perlopiù.

Noi li aiutiamo ma non sono come noi, dicono i suoi genitori. Jan non è d’accordo: noi siamo come loro, dobbiamo abituarci a essere come loro, tenta di ribattere: lo ha detto anche il Presidente. Ma non ci pensa più di tanto, non ancora, non prima di finire la birra, perché a lui delle parole dei Presidenti gliene frega poco.

E continua a fregargliene poco quando passa sotto la porta medievale dietro la quale un ragazzo più giovane di lui, con ciuffo e pantaloni sbrindellati, legge dal cellulare le parole di una canzone popolare, stonandole con attitudine punk accompagnato da un chitarrista senza maglietta e dal coretto delle amiche sedute sul muretto a passarsi quella che probabilmente è una canna. Sono strafatte, pensa Jan, che conosce una di loro e ha paura ad avvicinarsi perché è molto carina, ma il più interessante è senza dubbio il cantante con l’aria da orfano, uno che davvero vive alla giornata e a scuola nemmeno ci va, figurarsi l’università: questo in guerra morirebbe subito, altro che trincea, ma perché pensare alla guerra oggi, coglione? Della guerra e della Pasqua fottesega, davvero.

Ma quanti del Paese vicino in guerra con l’altro Paese vicino sono simili a questo buffo ribelle con le sue groupie fumate e il fido chitarrista insensibile al fresco della sera? Jan ora ha questa fissa insensata di immaginarsi ognuno di questi ragazzi combattere in campi gelidi e fangosi e tornare a casa come quell’altro che non riusciva ad accendersi una sigaretta con la mano monca, quel mostro. Una fissa davvero assurda perché questa sera in cui Cristo giustamente si leva in piedi ed esce dalla grotta è bellissima e piena di giovani sulle rive del fiume con birre in vetro e in lattina e altri che purtroppo lavorano o devono andare in Chiesa ma a un certo punto della notte saranno liberi e potranno sbronzarsi assieme a Gesù Cristo nell’alto dei cieli mentre i vecchi dormono sepolti.

Ora è uscito nella città nuova, dove i resti del Muro che tempo fa divideva il centro affiancano il Tribunale intronato su pompose scritte in latino così fighe che il prossimo anno forse si iscrive a Legge, ha deciso.

Non ha deciso: è solo la birra, è il palazzo illuminato della sera, le illusioni che la stagione ricama.

C’è meno gente: pochi giovani e nessun turista sui viali enormi costruiti sopra le macerie del Quarantacinque. Lui abita là in fondo, vicino alla scultura che raffigura soldati e croci per ricordare che i nazisti hanno raso al suolo l’intero quartiere, mezzo secolo fa o forse più. Prima che fosse nato, e che fosse nato suo padre. Il nonno nemmeno è di lì.

Ma è tardi. Ecco la chiesa, affollata sin dalla soglia: oltre alle suore è schierato l’esercito, in uniforme da parata, con trombette, vessilli e tutto il resto.

Perché si è fatta quest’ora? Ha perso troppo tempo dietro agli artisti di strada, a sorseggiare la birra guardando il fiume e cazzate varie? Forse dovrebbe sposarsi e scopare – non in quest’ordine – smettere di passeggiare senza costrutto. Ti farebbe bene un po’ di militare, gli diceva il nonno, venuto a mancare due anni prima.

Accanto alla chiesa staziona un furgoncino, sulla fiancata sta scritto: “Arruòlati nell’Esercito Nazionale, ottime paghe!”. Col cazzo!

La messa è finita, una folla di gente aspetta sulle scalinate il prete, per cominciare la processione. I genitori si trovano lì in mezzo, li vede senza essere ricambiato, concentrati come sono a scorgere il baldacchino che protegge il sacerdote.

D’un tratto nel buio i soldati si mettono in riga: fanno scendere un silenzio di tomba solo per romperlo con suono di fanfara.

Ed ecco che esce ‘sto vecchio vestito di bianco sotto un tettuccio dorato e di porpora, e tutti cominciano a camminargli dietro scortati dai soldati, come soldati, solenni e silenti.

Jan li segue perché non vede uscita, perché ha perso di vista i genitori, intruppato nella folla che cammina senza parlare, marciando lungo il viale, marciando per chissà dove, marciando per chissà chi, e marcia anche lui, marcia assieme a loro, marcia senza parlare, verso la pianura, verso il fango, verso il buio, marcia fino a perdere perfino il nome.

Forse non si chiamava nemmeno Jan, quel ragazzo.

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