di Andrea Muni
Questi graffi che scavo nella
carta, non sono me. Ma ora,
ora io, li sono in te.
Le dita sono spore, non morte
metafore, le parole si diffondono
per la penna, nella carta: ti toccano.
Vorrei lasciarti, ma non
riesco, un’oncia di questa
carne che pulso, che vive
perché sia sempre con te,
fuori. Una coperta grossa per
scaldarti di lei, avvolgerti in me.
***
Il cuore la rigetta? Meglio!
Il pegno che ti lascio è carne
che si gioca, come una moneta
tra le dita. Manine di bimbi
si avvolgono agli indici
dei padri senza staccarsi,
una penna nera scivola
dal manto della gazza,
pronta a diventare
pelle del mondo, a farsi
fiato, a giocare col niente,
ad avere vita soltanto in te.
***
Un brandello, un pezzo,
una reliquia che pulsa, sgomita
tra immagini e pensieri.
I sogni saltano, come pidocchi
dalla mia testa alla tua, trafficano
mentre dormiamo abbracciati.
Mani incompiute si stringono
e gesticolano sotto il mondo.
I denti del ricordo sono sangue
e stella; gelido, lontano, ancora
bollente: il morso entra piano
tra le dita, nella carne.