di Giovanni Isetta
Quando uscì la lista dei film selezionati per la 71° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia rimasi molto soddisfatto nel leggere che il nuovo documentario di Joshua Oppenheimer, “The Look of Silence”, era in concorso e decisi fin da subito che sarei andato a vederlo. Diversi mesi prima, su consiglio di un amico, mi capitò di vedere “The Act of Killing”. Un documentario in cui viene affrontato il genocidio di oltre un milione di persone avvenuto in Indonesia nel 1965 dopo un colpo di stato che depose il governo e instaurò una dittatura militare che, nel nome dell’anticomunismo, fece trucidare chiunque le si opponeva. Ciò avveniva durante la guerra fredda, e perciò con l’inevitabile sostegno, e plauso, dell’Occidente. Ancora oggi in Indonesia, nonostante sia arrivata una tiepida democrazia, nulla è cambiato, e la propaganda “liberale” seguita indisturbata a dipingere come eroi gli squadristi che si macchiarono di quell’eccidio.
Durante le ricerche per il film Oppenheimer cercò i sopravvissuti al massacro, ma la paura – da parte delle vittime – di possibili ripercussioni e il continuo ostacolo da parte della milizia portò l’impresa vicino al fallimento. Ma, paradossalmente, sarà proprio il venire forzatamente a contatto con quest’ultimi che permetterà a Oppenheimer di scoprire che sono i carnefici stessi a morire dalla voglia di raccontare, entusiasticamente, i massacri compiuti. Joshua scrive: “Not only did we feel unsafe filming the survivors, we worried for their safety. And the survivors couldn’t answer the question of how the killings were perpetrated. But the killers were more than willing to help and, when we filmed them boastfully describing their crimes against humanity, we met no resistance whatsoever. All doors were open. Local police would offer to escort us to sites of mass killing, saluting or engaging the killers in jocular banter, depending on their relationship and the killer’s rank. Military officers would even task soldiers with keeping curious onlookers at a distance, so that our sound recording wouldn’t be disturbed”.
Data la sorprendente disponibilità dei vecchi componenti di uno dei più efferati squadroni della morte di raccontare le loro gesta il lavoro documentaristico di Joshua divenne quello di svelare il loro sguardo. Oppenheimer, colpito dal loro amore per le pellicole americane, gli propone di girare un film in cui far rivivere le atrocità che avevano perpetrato e di cui loro stessi saranno gli attori, gli sceneggiatori e i registi. L’effetto finale è scioccante, non solo per ciò che racconta e per come lo fa, ma anche per la profondità con cui ci si immerge all’interno di una piega così oscura dell’animo umano. Basti pensare che all’interno del film il protagonista (Anwar Congo, il quale causò la morte di più di mille persone) vedendosi recitare si rende lentamente conto della brutalità dei gesti compiuti (tanto che ad un certo punto guardando una scena del film alla televisione chiederà perplesso “ma ero così cattivo?”) fino al punto che, interpretando la parte di una vittima, raggiungerà la drammatica consapevolezza del male commesso. Un documentario che quindi va ben al di là della storia, portando alla luce le conseguenze devastanti dell’atto di uccidere.
“The Look of Silence” ci riporta ancora proprio in Indonesia ma, questa volta, il punto di vista non è quello dei carnefici bensì quello delle vittime. In particolare quello di Adi, un oculista 44enne il cui fratello fu assassinato dagli squadroni della morte. Adi affronta faccia a faccia gli uomini che, direttamente o indirettamente, hanno causato la morte di suo fratello e di moltissimi altri. Sono incontri in cui la voce e lo sguardo calmo e determinato di Adi si scontrano con la freddezza e l’arroganza di chi non ha alcun rimorso per ciò che ha compiuto; incontri in cui il protagonista, nello stesso villaggio in cui convivono i carnefici e i famigliari delle vittime, cerca di sollevare il velo di indifferenza e silenzio che ricopre l’orrore di quell’eccidio. L’accusa che più spesso viene rivolta ad Adi è quella star compiendo un’azione insensata, di voler riaprire una ferita che oramai, da molto tempo, è stata chiusa (ma come può essere “chiusa”, se è stata sempre ignorata?).
Infine ci sono i toccanti dialoghi che Adi intrattiene con i propri figli, quei figli che a scuola imparano una storia molto diversa da quella che lui cerca di raccontargli, e con l’anziana madre, che ha vissuto in prima persona le persecuzioni politiche. Fino a giungere al rapporto del protagonista col padre ultracentenario, ormai cieco, quasi sordo, che neppure ricorda più quel figlio massacrato (cioè il fratello di Adi). Dalla feroce scena dell’indifferenza, Oppenheimer ci conduce alla scena toccante del calore affettuoso, familiare, di persone che hanno condiviso l’orrore e il dolore, senza cedere e senza perdersi. Esseri umani sul cui volto rimbomba il dramma dei soprusi subiti, smisuratamente amplificato dal velo di oblio che ormai, persino loro stessi, hanno deciso di non voler mai più sollevare. Semplicemente colpevoli di essere vittime.
La grande capacità di Joshua Oppenheimer, già manifestata in “The Act of Killing”, è proprio quella di riuscire a sospendere, per tutta la durata del film, l’ansia di giudicare. Oppenheimer sa sospendere persino quel desiderio di giustizia che, per quanto legittimo, rischierebbe di far passare in secondo piano il dramma propriamente individuale e umano di quelle famiglie, di quel popolo e di chi è stato assassinato. Meritatissimo quindi, a mio avviso, il Gran Premio della Giuria vinto da questo capolavoro che, spero, vedremo presto nei nostri cinema.
Vorrei concludere riportando un momento molto emozionante avvenuto a fine proiezione, quando, voltandomi per applaudire Oppenheimer e Adi (presenti in sala), scorgo nel volto del protagonista una profonda disperazione e sofferenza, poi le lacrime e l’abbraccio col regista (che ho personalmente ritratto nella fotografia che apre l’articolo).