The looking glass. Io, me & Virginia Woolf

di Ruben Salerno

   Io la odio Virginia Woolf.

Mi ricorda le interrogazioni di inglese delle superiori. Brutta età quella, credi di essere e non sei, o almeno non ancora, non del tutto. Ti guardi nello specchio e non ti riconosci, in quel riflesso. La signora nello specchio: Un riflesso è un racconto di Virginia Woolf.

Una Scrittrice è seduta sul sofà, o meglio, immersa nelle profondità del divano e aspetta una tal Signora Isabella. Non potendo ancora controllare le notifiche, siamo nel ‘29, fissa lo specchio enorme sulla parete del salotto e guarda quello che succede nel riflesso, quasi fosse una finestra sul mondo oppure, oggi, uno schermo. Quel punto di osservazione include una porta aperta che dà sul giardino, e la Scrittrice si diverte a spiare l’amica che armeggia con fiori e piante, ignara di essere osservata. Bella, ricca, enigmatica, indaffarata e zitella. Un sogno. Ma poi se la dimentica sullo sfondo e si concentra su gli oggetti riflessi, come alcune vecchie lettere che sbucano dai cassetti di una credenza e su quelle nuove, appena portate dal postino, personaggio che scompare di scena tanto velocemente quanto ci era entrato. Brama sapere cosa ci sia scritto, per capire qualcosa in più di Isabella, cogliere la sua essenza, perché è delusa dalle chiacchiere che fanno a pranzo, sempre frivole, banali. Da gossip. Così finisce per accontentarsi di osservarla nello specchio. Se la immagina filosofa e libertina, passare in rassegna tutte le avventure amorose vissute e interrogarsi sulla felicità e sulla morte, mentre pota le piante. Ed è proprio l’illusione delle sue fantasie su Isabella che tradisce la Scrittrice, e te che leggi il suo racconto, perché a questo punto non si capisce più cosa sia reale e cosa inventato, finché (spoiler) non rivela che l’amica non è niente di più di una vecchia solitaria qualsiasi.

Era perfettamente vuota. Non aveva pensieri. Non aveva amici. Non teneva a nessuno. E quanto alle lettere, erano conti.

Insomma, sembra la tipica riflessione modernista novecentesca, con il male di vivere e tutto il resto, di quelle studiavi alle superiori per l’interrogazione. E infatti, nella prefazione del libro (Virginia Woolf: tutti i racconti, La Tartaruga Edizioni, Milano 1985), il critico arriva a dire che Virginia Woolf dipinge con maestria paesaggi suggestivi e ambientazioni irreali per ripiombarci poi nella tragica banalità del reale. Eppure a me, che non faccio il critico ma critico, pare ci sia di più dentro il racconto dell’autrice inglese.

La situazione potrà anche sembrare statica e irreale, in fin dei conti non succede quasi niente per due pagine, ma è tutta apparenza. Quell’immobilità nello specchio è il riflesso del movimento, nella realtà. Lo sottolinea anche la Scrittrice:

in quella stanza nessuna cosa rimaneva sé stessa per due secondi.

Sono gli anni della meccanica quantistica, di Heisenberg, (lo scienziato, non il protagonista di Breaking bad) e del paradosso di Shroedinger. La Woolf magari non lo esprime direttamente, che per lei il flusso degli avvenimenti è solo una questione di prospettiva, ma te lo fa vedere. Fermati e guarda, dice, manco fosse il maestro Yoda, osserva come, senza troppa fatica, puoi cogliere lo spostamento dei granelli di polvere nell’aria e l’oscillazione delle tende del salotto. Ti parevano ferme e immobili, sempre uguali, ma le cose senza vita si muovono, e non dipende da te.

È la traduzione del titolo a fregarti, non rende giustizia all’ambiguità del racconto. Il nome originale, The lady in the looking-glass: A Reflection è molto più inquietante: the looking-glass non è solo uno specchio ma un “vetro guardante” e a reflection è sinonimo di “riflesso” ma letteralmente significa “una riflessione”. Allora ti viene il dubbio che, forse, chi sta guardando e pensando per davvero non sia la donna sul divano, o Isabella, ma lo specchio sulla parete, tanto inanimato quanto vivo. Come se, seduto sull’autobus o mentre aspetti il tuo turno alle poste, scorrendo le notifiche, avessi la sensazione di non essere tu a comandare le dita ma che sia lo schermo illuminato a guardare e muovere te.

In fondo non è male, Virginia Woolf.

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