di Eleonora Degrassi
Guillermo del Toro da bambino aveva paura dei mostri; poi, da grande, l’ha esorcizzata. Usando nei film i propri incubi li ha eviscerati, aperti, vivisezionati, e infine addirittura amati. Quei mostri Del Toro li ha tenuti stretti a sé per poi consegnarli alla fiducia del pubblico, nel desiderio che possano essere riconosciuti e condivisi. Il regista ha danzato con loro lungo tutta la propria vita, un po’ come il mostro (Doug Jones) fa con Elisa Esposito (Sally Hawkins), dolce e coraggiosa protagonista di The Shape of Water, caleidoscopico mix di generi (horror, fantascienza, musical, thriller), vincitore del Leone d’oro alla 74a Mostra del Cinema di Venezia e candidato con 13 nomination ai prossimi Oscar.
Del Toro col suo ultimo lavoro ha scritto un canto d’amore per il cinema: Elisa vive sopra una sala cinematografica, poco frequentata. Alla televisione lei e il vicino di casa Giles (Richard Jenkins) guardano continuamente musical che tentano di imitare, il film stesso presenta varie citazioni, più o meno dichiarate, di altre pellicole (Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, Delicatessen e Il meraviglioso mondo di Amélie, entrambi di Jean Pierre Jeunet, l’atmosfera scura dei film di Tim Burton) ma anche autocitazioni (La spina del diavolo, Il labirinto del fauno). È un racconto sulla disponibilità d’animo e sulla comprensione, una favola nera vitale come un musical e scura come un noir che immerge La Bella e la Bestia di Jean Cocteau nella spietata e brutale Guerra Fredda.
The Shape of Water, è innegabile, si snoda come una fiaba fin dalla voce narrante che ci presenta Elisa: C’era una volta una donna delle pulizie muta, una principessa silenziosa, portata all’ascolto dell’altro. Lo spettatore entra nella quotidianità della protagonista, fatta di gesti e azioni sempre uguali, di una stanca ripetitività: svegliarsi la mattina, bollire le uova, fare il bagno, andare al lavoro e così ogni giorno. Tutto cambierà quando nel laboratorio dove lei lavora, a Baltimora, verrà portato un terribile, aggressivo, mostruoso essere che la scienza (americana) vuole studiare.
All’assenza di voce – metafora del bavaglio culturale e quindi sociale che l’America degli anni ‘60 (la vicenda si svolge nel 1962), quanto mai contraddittoria, ha stretto attorno alla bocca di quelli come lei – fanno da contrappeso l’empatia e la compassione, che la legano all’amico omosessuale Giles e alla collega e amica afro-americana Zelda (Octavia Spencer). Anche i due, come Elisa, sono diversi, ma se lei lo è per la lesione alle corde vocali, loro lo sono per orientamento sessuale ed etnia, ritenuti “difetti” dal mondo che li circonda, il quale non perde mai l’occasione di dimostrare quanto essi siano sbagliati, mancanti, disfunzionali. Lo fa il capo, a cui non va mai bene il lavoro svolto; lo fa chi crede di essere superiore ai suoi sottoposti perché bianco, perché uomo, perché capo.
C’era una volta un mostro marino pieno di cicatrici, una creatura mitologica, venerata in Amazzonia come un dio, citazione vivente ed eco di molti film e molti mostri già visti, da quello della laguna nera a quello protagonista del cortometraggio The Space Between Us (Mark S. Nollkaemper) da cui si dice il regista abbia copiato l’idea. Grazie al tocco gentile e all’amore del suo creatore, forte di tutta la sua poetica, il mostro – un mix di crudeltà di forma e di animo buono – riesce ad avere vita e storia proprie facendo della solitudine sua e di quella di Elisa una poesia in musica.
L’odissea della creatura si complica in quel laboratorio, dove viene maltrattato dal crudelissimo Strickland e dove viene compreso, accarezzato, curato e amato da quella donna di cui lui non vede l’handicap. Sotto gli abiti moralisti e perbenisti del potere si cela il “vetusto colonizzatore”, il vero mostro dall’animo gretto, dalla violenza inaudita e dalla malignità smisurata. Il personaggio interpretato da Michael Shannon esemplifica perfettamente il senso del film di Del Toro: non sono gli emarginati (Giles, Zelda, il mostro, Elisa) ad essere i “fuori dalla norma”, ma la vera belua horribilis, brutale, crudele, razzista e sessista è invece colui che rappresenta il grado massimo della supposta “civiltà”: il maschio alfa, prodotto del sogno americano, affamato di fama, successo, amplessi, perseguitato dalla mania della decenza e della perfezione ad ogni costo. A rappresentare i buoni sentimenti e l’amore sono invece proprio i cosiddetti ultimi, che rompono gli argini, raggiungono traguardi inaspettati e concretizzano il virgiliano omnia vincit amor.
C’era una volta l’amore – quello tra Elisa e di un mostro senza nome spaventoso e spaventato: un amore fatto di silenzi, di musica sentita profondamente e uova cucinate la mattina presto. C’era una volta un abbraccio di due anime lungo, intenso e appassionato: un incontro di due solitudini che si uniscono, prima in un laboratorio poi nella fuga. In un’America esangue e verdastra (il verde è uno dei colori dominanti della pellicola e rappresenta tutto ciò che è bello esteticamente ma dentro è vuoto e rinsecchito), in bilico tra il sogno di successo e il declino, prende vita l’amore liquido di questi due emarginati dolenti e dolorosi se separati, ma altrettanto vigorosi e appagati se uniti.
The Shape of Water si sfoglia come un libro bello e ferino di passione e amore, odio e violenza, sesso e ossessione. È una fiaba per adulti in cui idee, domande, immagini, decisioni e desideri che nelle fiabe per l’infanzia sono nascosti sotto uno strato dolce e delicato vengono portate a galla: sangue, odio, masturbazione e sesso (inteso come vis primordiale capace di fondere ciò che prima era diviso, di superare in una sorta di sublimazione la fisicità e sprofondare negli abissi del sentimento) diventano fili da intrecciare, parole che creano una storia di pena e dolore, amore e comprensione, passi di un tip-tap malinconico e luminoso. Il film annoda la “realtà” storica (La Guerra Fredda, la rivalità tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, l’ideale del self made man e il piacere sessuale, l’odio e la paura del diverso) con le intime e privatissime nevrosi da essa determinate, usando come collante l’immaginario mitologico proprio del cinema fantastico (a cui Del Toro ha sempre attinto e in cui si è distinto). Un immaginario dotato di tutte quelle misteriose “cangianze”, che potrebbero abitare solo un nuovo chimerico “continente”. In questo mondo è l’acqua a diventare materia che culla, dà forma, unisce e lascia andare; è proprio in questo liquido amniotico vitale che Elisa e l’essere mitologico abbattono completamente quei limiti per loro già inesistenti e lì, dentro, attorno a quell’acqua uno diventa per l’altro fatale monstrum, creatura eccezionale mandata dal destino.
L’opera del cineasta riempie i vuoti dati dall’assenza delle parole della protagonista con tutti gli altri sensi, in un valzer malinconico e struggente sulle note di Alexandre Desplat: escono letteralmente dallo schermo il rancido miasma del crudele Strickland, il sapore nauseante della torta al limone che insistentemente Giles va a comprare, la pelle ruvida e aspra della creatura mostruosa sotto la mano leggera e amorevole di Elisa. The Shaper of Water è un film che sconvolge i sensi, un inno alla diversità e all’altruismo, che muove ciò che è inamovibile. La commovente parabola di una principessa “alternativa”, che si innamora di un uomo anfibio, commuove e tormenta lo spettatore anche quando esce dal cinema. Un racconto più che mai necessario nell’era, e nell’America, di Trump. Colui che guarda partecipa alla vicenda sospeso tra sogno e realtà, tra grazia (quella di Elisa) e oscurità (data dalla violenza e dalla paura), affascinato da quel mostro strabiliante e magico e da un sentimento potente – e mai sdolcinato – che unisce due esseri tanto diversi ma, al contempo, tanto simili.