¡Tierra y libertad! Verso Mondeggi Bene Comune

di Francesca Ruina

Mondeggi

“La terra è di chi la lavora”, diceva la bocca di Emiliano Zapata più di un secolo fa, mentre con le mani s’impegnava a ridistribuire le terre ai loro legittimi (non) proprietari: i contadini, i lavoratori, il popolo. Con questo gesto, Zapata demercificava sia le terre che il lavoro degli uomini, rinaturalizzando le prime e riumanizzando il secondo. Ricreava, cioè, quel cordone ombelicale che unisce l’uomo alla natura, senza privatizzare ciò che è e che deve restare di tutti.

Ora, cosa accade nell’epoca del neoliberismo e della privatizzazione? Cosa succede quando la terra non è più considerata un bene comune, ma una cosa tra le cose, lasciata morire o marcire in stato di abbandono pur di non sottrarle quell’etichetta identitaria che la rende sempre e ossessivamente “di qualcuno”?

Due reazione possibili a tutto ciò. La prima: chinare il capo, in – eterna e vana – attesa di un contentino che arrivi dall’alto, di una distribuzione di briciole dei nostri diritti, per le quali ci stanno addestrando a dover ringraziare – e, cosa ancora peggiore, a sentirci davvero grati per quel poco che riceviamo. E allora eccoci, tremanti come pulcini col becco protratto in attesa di ricevere un vermicello che ci sfami, gioire per un orticello comunale piazzato in mezzo a colate di cemento. Accontentarci di un pezzo di cielo (la cui grandezza dipende sempre da un fantomatico e invisibile “altro”) mentre osserviamo inermi la macchina capitalista che inghiotte lentamente il nostro sacrosanto diritto alla vita.

Ma c’è una seconda via possibile, ed è di questa che voglio parlare; è di questa che bisogna parlare, prima che il meccanismo dell’accettazione passiva di questo status quo da anziano che con le braccia conserte bofonchia sulle macerie del presente, si mangi la nostra possibilità di intravedere (e costruire) un orizzonte.

Sul territorio italiano si sono sviluppati, soprattutto nell’ultimo decennio, numerosi movimenti di resistenza contadina, organizzatisi dal basso per far fronte alla morsa dell’indifferenza istituzionale, lanciando campagne e progetti legati al cibo e alle risorse naturali. Nel 2010 nasce “Genuino Clandestino”, “comunità in lotta per l’autodeterminazione alimentare” – come recita il suo manifesto – contro l’equiparazione dei cibi contadini con quelli della grande e omologante industria alimentare. Per sostenere un’agricoltura biologica, legata alla territorialità e alla biodiversità, ma anche e soprattutto perché la terra torni a essere davvero un bene comune e un campo d’azione politica, questo e altri movimenti portano avanti una lotta che unisce singoli e comunità, che genera al proprio interno una biodiversità non soltanto naturale ma anche e soprattutto umana.
Sono oltre un milione gli ettari agricoli nelle mani demaniali. Terre che molto spesso restano incolte e abbandonate.

È quello che succede, ad esempio, nel comune fiorentino di Bagno a Ripoli, dove ci sono ben 170 ettari di terra, appartenenti alla provincia di Firenze, la quale, dopo anni di mala gestione che hanno prodotto un debito di circa un milione di euro, ha optato per la vendita. Fin qui, niente di nuovo sul fronte occidentale: è la solita italietta alla quale siamo ormai tristemente abituati (avendo perso anche la capacità di indignarci), fatta di grandi acquisti gestiti male (e spesso in modo clientelare) e poi svenduti al migliore offerente. Ciò che invece ha disatteso le aspettative dei burocrati della terra è stata la risposta che si è autogenerata dal basso, a partire dalla rete di “Terra Bene Comune Firenze”. Studenti di Agraria, giovani precari, contadini, gasisti, Wooffers e semplici cittadini hanno dato vita alla campagna “Mondeggi Bene Comune Fattoria Senza Padroni”.

La proposta, consistente nel recupero dell’area della fattoria attraverso un lavoro collettivo dei partecipanti, ha visto un’iniziale apertura possibilista della Provincia di Firenze, che è però subito ritornata sui propri passi. Da lì è iniziato un presidio permanente del Comitato che ha, via via, ampliato le attività agricole, creando numerose occasioni di condivisione e socialità che hanno portato, il 14 ottobre, al fallimento dell’asta proposta dalla Provincia per la vendita della fattoria.

È una lotta pacifica quella di Mondeggi, fatta di mani che si stringono nella terra, senza bisogno che questa debba essere di qualcuno per dare i suoi frutti. È un’azione politica, della politica vera, quella che sta tra la gente, in contatto diretto con la terra, e non quella che si rinchiude nelle istituzioni, guardando dall’alto un mondo del quale non sente più odori né sapori. È una lotta che si fa arte, come quella del Teatro Contadino Libertario, che viaggia in tutta Italia, dal sud fino alla Valtellina, dove ho occasione di incontrarli. Emiliano Terreni (contadino/apicoltore), Davide Cecconi (contadino/viticoltore) e Giovanni Pandolfini (contadino/orticoltore) mettono in scena uno spettacolo liberamente tratto dal romanzo “Furore” di John Steinbeck, dall’eloquente titolo “Ci dispiace, siete su una terra che non vi appartiene più”. I tre attori non recitano, vivono. E si sente. Non stanno tanto incarnando la rabbia desolante di quei contadini americani post crisi del ’29 che si vedevano espropriare le terre dalle banche e dai grandi latifondisti, ma ci stanno parlando di loro stessi. Ci stanno parlando di noi, di quello che succede oggi alle nostre terre e che passa sotto silenzio, coperto dagli schiamazzi di una politica sempre più da rotocalco. L’incontro con i piccoli produttori valtellinesi, con persone che, come loro, si battono per ritagliare un’alternativa alla sarcofagia del sistema, allarga la rete, gli scambi e, con essi, la possibilità di creare un tessuto alternativo al mainstream dell’alimentazione, ma ancor di più, al mainstream del pensiero.

Per uscire da un’ottica ciecamente proprietaristica e mercificante, in cui tutto deve essere identificabile e quantificabile – merci e individui –, per smettere di masticare la plastica insapore con cui il capitalismo ci ingozza, è necessaria una resistenza che sia attiva, e non una mera constatazione passiva dello status quo.

La lotta di Mondeggi dev’essere per tutti noi un richiamo all’azione, a un agire politico che non sia mera e spregiudicata difesa di interessi personali. Un richiamo a quella che Hanna Arendt chiamava “vita activa”, il “bios politikos” aristotelico, possibile solo se si accetta la dimensione plurale dell’esistenza umana, contro ogni violenza omologante. “La pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà”, scriveva la Arendt. Mondeggi ci ricorda che la politica siamo noi, con le nostre azioni di ogni giorno, e non una grande narrazione che scende dall’alto e che non ci compete. Ci ricorda che la terra è nostra, di ciascuno di noi in quanto umanità diversificata e non in quanto singolarità nominale.

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