di Michele Guida Conte
Spetta al museo Wallraf-Richartz di Colonia il compito – o meglio l’onore – di inaugurare il ciclo di mostre dedicato al cinquecentesimo anniversario della nascita di Jacopo Tintoretto (1518 – 1594), pittore nato, cresciuto e formatosi a Venezia, definito da Giorgio Vasari come “il più terribil pennello che la pittura abbia mai avuto”, e che pure il poeta, nonché amico del Nostro, Andrea Calmo non esitò ad apostrofarlo quale “grano di pepe”, volendone esplicitamente sottolineare il carattere irrequieto.
Prima di entrare in maniera più specifica nella mostra, mi sembra doveroso spendere qualche riga per giustificare l’importanza di un evento del genere. Infatti Tintoretto, pur essendo ormai da tempo riconosciuto dalla critica specialistica come uno dei più importanti e influenti artisti attivi nella Venezia del sedicesimo secolo, soltanto in due occasioni è stato protagonista di una mostra monografica. La prima venne allestita nella veneziana Ca’ Pesaro nel 1937 e fu curata da Nino Barbantini, mentre si è dovuto attendere ben settant’anni per poter assistere alla seconda, svoltasi al Museo del Prado di Madrid, nel 2007, a cura di Robert Echols, Frederick Ilchman e Miguel Falomir (in occasione di quest’ultima si tenne anche un convegno internazionale, articolato in più giornate, i cui atti sono stati pubblicati nel 2009). Non bisogna poi dimenticare la rassegna romana del 2012.
Già alla luce di questa breve premessa si intuisce che l’evento del Wallraf-Richartz Museum, curato da Roland Krischel, costituisca un tassello importante per lo studio e le ricerche su Jacopo Tintoretto, nonché si presenti come un’opportunità per provare a fare il punto sullo stato dell’arte in merito alla spinosa questione della giovinezza dell’artista. Per capire lo spessore dell’esposizione, basta guardare i nomi dei musei che hanno contribuito, coi loro prestiti, alla sua realizzazione: il Museo del Prado di Madrid, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, lo Szépművészeti Múzeum di Budapest, la National Gallery di Londra…
Innanzitutto la mostra ha il pregio di non essere un’antologia di dipinti che copre la carriera di Tintoretto dagli esordi all’epilogo, in cui a farla da padrone sono i capolavori noti (ad esempio il Miracolo dello schiavo delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, oppure il Ritrovamento del corpo di San Marco della Pinacoteca di Brera di Milano), ma al contrario si concentra solo sulla fase iniziale del percorso di Tintoretto. Un taglio del genere permette allo spettatore/visitatore di conoscere sia opere meno note, ma di indiscusso valore – come ad esempio il Cristo tra i dottori conservato presso la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano – sia di comprendere in che modo la “genesi” di un artista avvenga attraverso dipinti “sperimentali”, che in maniera più o meno evidente dimostrino la riflessione su stimoli provenienti da diverse fonti.
La mostra punta l’obiettivo verso le fasi di passaggio di Tintoretto, quelle in cui l’artista assimila e reagisce, interpreta e propone: sono questi i tratti peculiari dell’astro nascente. Per un pittore ancora in cerca in uno stile personale e di una identità propria, quale è Tintoretto nel quinto decennio del Cinquecento, osservare e prendere spunto dal meglio che la scena contemporanea aveva da offrire sia in termini di pittura che di scultura, diviene così un fatto spontaneo. Tutto contribuisce a definire la personalità di colui che è consapevole di affacciarsi alla scena artistica veneziana con l’intenzione di diventarne il protagonista assoluto. Per quanto riguarda gli studiosi di Tintoretto, questa è certamente un’occasione di riflessione, a partire dalla datazione proposta per le opere in mostra.
La prima sezione si apre nientemeno che con il Cristo tra i dottori (Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano): punto di fuga centrale, impostazione prospettica della scena, monumentali figure in primo piano, timbrici colpi di pennello che ne definiscono con accese lumeggiature i panneggi delle vesti. Fa strano vedere come un’opera del genere, che guarda apertamente alla maniera tosco-romana, sia annoverata quale primizia assoluta; lampante infatti è il confronto con una Lavanda dei piedi (inedita, datata 1539) che fa trasparire la conoscenza di Bonifacio de’ Pitati, in cui si avverte ancora l’uso tonale del colore tipico della tradizione veneziana. In sala è presente pure la Conversione di Saulo (National Gallery of Art di Washington), utile termine di paragone e confronto per il Cristo tra i dottori: due opere solitamente fatte risalire alla stessa fase del percorso di Jacopo, e qui sono separate da ben cinque anni.
La sezione successiva presenta una categoria di dipinti che potrebbe sembrare inaspettata, ma che in realtà fa capire come un artista per guadagnarsi da vivere svolgesse lavori di varia natura come la decorazione di manufatti di uso quotidiano quali i cassoni, o decorativi come i pannelli di soffitto. Esposti in mostra si possono ammirare due esemplari di lacunari, conservati presso la Galleria Estense di Modena e provenienti dal palazzo veneziano di Vettor Pisani, e un pannello di cassone proveniente da Vienna; anche in questo caso i confronti con opere coeve della stessa tipologia di Paris Bordone e Andrea Schiavone illuminano sulle relazioni intercorse tra questi artisti verso la metà del sedicesimo secolo.
Tuttavia è nella terza sala che la mostra prende un altro piglio: sono infatti esposte opere narrative di più ampio respiro, come le due versioni del Cristo e l’Adultera provenienti rispettivamente da Roma e Amsterdam. È in questa sezione che si può ammirare il dialogo con i trattati di architettura che Sebastiano Serlio andava pubblicando; alcune sue vedute prospettiche sono riprese quasi pedissequamente da Tintoretto, che le rende vive e brulicanti di personaggi tratti dalla vita quotidiana veneziana. In particolare le Adultere aprono un capitolo tutt’ora problematico della carriera giovanile di Jacopo: quello dell’apporto della bottega. Se si guarda alle due versioni dell’Adultera presenti in mostra pensando alla versione conservata a Dresda, c’è da riflettere. Non a caso le tele di Amsterdam e Roma sono segnate come “Tintoretto e Bottega” (Giovanni Galizzi?). Il visitatore è nuovamente messo di fronte alle problematicità insite nello studio di un artista dalle molte sfaccettature quale è il giovane Tintoretto.
A dominare la sezione successiva è il confronto con la scultura coeva. Disegni tratti dall’antico, copie da Michelangelo, Tintoretto non si risparmia. Qui fa magnifica mostra di sé il capolavoro che Jacopo licenzia per i camerlenghi, magistrati addetti alla sovrintendenza delle attività economiche. L’opera in questione, del 1551, è il San Giorgio, San Ludovico di Tolosa e la Principessa: lei, muscolosa, ripresa nell’atto di domare il drago (che lo spagnolo Palomino nel Seicento aveva interpretato come una “Santa Margherita a cavallo del serpente”) richiama i possenti corpi michelangioleschi, e la sua immagine è magistralmente riflessa sul pettorale dell’armatura di san Giorgio. La tela è fiancheggiata da due bronzetti di Bartolomeo Ammannati, fonti a cui Tintoretto con molta probabilità si è ispirato per le pose del san Giorgio e della Principessa. Non c’è tempo per riprendersi dall’impatto visivo di un’opera del genere, che subito si si imbatte nell’altrettanto magnifico San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra. L’evento prende luogo in secondo piano, a ridosso uno spiovente roccioso dominato dalle mura di una rocca, ammantata da una azzurra foschia. Il primo piano è dominato da un altro sfoggio di maestria di Tintoretto, ancora la principessa che questa volta non doma il drago ma riesce a sfuggirne. La dinamica torsione del busto, l’espressività del gesto e il colore vivace del panneggio sono magistralmente condotti. L’impressione tuttavia è che, stavolta, il protagonista sia il paesaggio.
“Tintoretto e il suo doppio”. Si è giunti così al rebus che ha dato da pensare parecchio agli studiosi di Tintoretto. Ma chi è questo misterioso alter ego? Sveliamolo: è l’oscuro Giovanni Galizzi, pittore bergamasco che secondo quanto sostenuto dallo studioso Robert Echols, sarebbe il vero autore di numerose opere giovanili solitamente attribuite a Tintoretto. Il discorso è complesso, e forse avrebbe necessitato di essere affrontato attraverso un maggior numero di dipinti. Ma bisogna dare il merito al curatore di aver portato in mostra una delle uniche due opere superstiti (nonché firmate!) di Galizzi, il San Marco in trono proveniente da Vertova, nella provincia bergamasca: lo spettatore può dunque trarre le sue conclusioni osservando dal vivo i quadri a confronto.
La rassegna tedesca si chiude con dei saggi di ritrattistica, esempio dell’abilità di Tintoretto di fissare sulla tela la personalità dell’effigiato, e una panoramica sulle Femmes Fatales (così si intitola il finale del percorso).
Considerazioni finali. Come scritto in apertura, la mostra è sembrata di assoluto valore scientifico, sia per come è articolata, sia per la scelta delle opere esposte. Tutti i cartellini e i pannelli illustrativi sono bilingui, tedesco ed inglese, ma purtroppo il catalogo è solamente in tedesco. Ma non c’è da preoccuparsi, dal momento che dopo Colonia la mostra si sposta a Parigi, ed è presumibile che il catalogo francese sia maggiormente accessibile. Concludo citando un passaggio tratto dalla pionieristica monografia su Tintoretto scritta da Luigi Coletti nel 1940, che definì così il percorso artistico del pittore: “né rettilineo, né parabolico […] con frequenti oscillazioni e ritorni con andamento spiralico; e, pur rispondendo in generale alle necessità interiori dell’artista, è spesso complicato da volute deviazioni, dalle quali risulta un complesso polimorfismo”. Descrizione, questa, tutt’ora di lampante attualità.