Trent’anni di vuoto. Ballata per Massimo Troisi

di Andrea Muni

Immagine da Wikipedia (crediti qui)

L’ombra della morte allunga gli angoli delle bocche, li fa acuti, sorridenti. C’è un modo di ridere, e di far ridere, tipico di chi si porta in braccio, o in tasca, la morte; di chi la porta come una patina avvolta intorno alle orbite, che confonde e inverte sur place distanza e prossimità, distacco e intimità. Un modo tenace di essere vivi, di tenerci persino, che hanno solo loro: quelli che reggono la morte a fior di labbra, che se la giocano tra la lingua e i denti come una spiga o una gomma da masticare.

E l’onestà, che non è un sentimento morale, ma l’atteggiamento spontaneo di chi è libero. E il distacco, l’indifferenza, l’ironia sprezzante per tutto ciò che non è vita. Il non compromettere, mai, sulle cose davvero importanti. Su tutto il resto… Cedere! Cedere subito, cedere senza quartiere!

“Ma tu parleresti, cederesti sotto tortura? Confesseresti tutto come il personaggio del film?”, chiede una ragazza al protagonista di Ricomincio da tre. La maschera di Troisi risponde “Io? A me basta che mi dici ‘Se non parli, guarda che – forse – ti torturiamo’ e già io vuoto il sacco immediatamente“.

Osare guardare dentro ai sentimenti, ragionare di femminismo e di comunismo senza sbandierarlo autocelebrativamente ai quattro venti per ottenere fama o quattrini, senza sbatterlo in faccia. Non per paura, per delicatezza. Perché si sa che le chiavi umane ed emotive per toccare davvero tutti si trovano sempre un po’ più in là, un po’ spostate, rispetto al nome che gli danno i vocabolari, i manuali e i grandi ideali.

La comicità dell’uomo medio, del pusillanime, dell’inetto, dell’introverso che tutti siamo; del trentenne dei primi anni Ottanta, così lontano e così vicino da quello che siamo (stiamo per essere, o siamo appena stati) oggi; del napoletano stufo degli stereotipi e fiero delle sue radici. Mondi diversi, problemi simili: amore, futuro, identità. Pino Daniele, Maradona, La Smorfia, e poi Scola, Mastroianni, la candidatura postuma agli oscar per il Postino. Da erede della tradizione caratterista napoletana a grande attore e regista affermato, sempre senza cambiare di una virgola, sempre con la stessa morte allegra nel sorriso. La sua somiglianza con Eduardo.

Un trentenne di ieri cogli occhi puntati dritti sulla crepa dove riso e pianto scivolano l’uno nell’altro, quella in cui il senso di impotenza e la forza, la voglia, il bisogno di vivere si scambiano magicamente di posto, come in un bluff riuscito. “Meglio essere odiato per ciò che sono, che essere amato per ciò che non sono” – celebre frase attribuita a Kurt Cobain (morto due mesi prima di lui), che certamente Troisi avrebbe sottoscritto.

E l’amore. In un’intervista dice “l’amicizia ferisce più dell’amore”, “l’amore è a ogni angolo della strada, l’amicizia è più difficile”. L’amore come inevitabile, eterno malinteso – che pure dà senso alla vita. L’amore che non è mai abbastanza grande per tutti e due, che è un calesse. L’amore buco nero in cui si scarica e gorgoglia il distillato peggiore delle nostre nervosi (finché non impariamo a riderne).

O finché non si confonde con qualcosa di più articolato, di più difficile. Nell’ultima scena del Postino, che forse non tutti ricordano, il protagonista dopo aver conosciuto l’amore grazie alla poesia, e la politica grazie all’amore per la poesia, si appresta a leggerne una durante un comizio comunista a cui partecipa. Ma proprio mentre si fa largo tra la folla, e sta per salire sul palco, si scatenano degli scontri con la polizia nel corso dei quali rimane ucciso.

Troisi muore il giorno dopo aver finito questo film, per aver procrastinato il viaggio negli Usa che avrebbe potuto salvargli la vita. In Troisi, come in Cobain, c’è lo spirito delle migliori menti a cavallo tra due decadi, Ottanta e Novanta, in cui ancora, tra depressione e autoironia, si cercava disperatamente di aprire spiragli nel sempre più asfissiante there is no alternative.

Un’offerta di complicità, intima, disperata e autoironica, con la quale si cercava con le unghie e con i denti di restare attaccati a un’senso di comunità e di lotta politica che sempre più ci si sentiva scivolare tra le dita. Tentativi estremi, tardivi, di costruire ponti che collegassero le isole di incomunicabilità in cui le persone del Primo mondo andavano trasformandosi.

Tentativi che non potevano più prescindere dal mettere in gioco il privato, dal coinvolgere la sfera dei sentimenti, le forme della soddisfazione individuale e quelle del rapporto più intimo con se stessi e con gli altri; tentativi che paiono a volte ormai lontani secoli per coraggio, lucidità, genio e sensibilità.

Non smettiamo di guardarlo, e di parlarne, bene o male che sia.

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