Trieste Film Festival 36: uno specchio sul mondo

di Leonardo Sica

Toxic, 2024, Saulė Bliuvaitė, Akis Bado©️

Durante il discorso di apertura del trentaseiesimo Trieste Film Festival, la curatrice Nicoletta Romeo si riferisce a esso come ad una “finestra sul mondo”. In fondo, quando si parla di cinema, è proprio di questo che si tratta: di un pezzo di realtà costretto da una cornice all’interno di un piano. Una finestra di sogno, di evasione, di denuncia, un’arte perversa, voyeuristica. La passività dell’atto di guardare da una finestra è tuttavia illusoria, in quanto talvolta esso è al tempo stesso una finestra e uno specchio, in grado di rendere gli spettatori protagonisti, tale da metterli davanti a degli interrogativi, capace di esaltarli o farli sentire a disagio. Sono numerose le pellicole presentate a questa edizione del festival che sembrano aderenti a questa definizione, forse in risposta a una società in cui si è talmente assorbiti dall’atto di definire e coltivare la propria immagine, da dimenticare di guardarsi attentamente allo specchio, isolati, di tanto in tanto, dal contesto.

Toxic, esordio della regista lituana Saulė Bliuvaitė, viene premiato come miglior lungometraggio in concorso, arrivando a Trieste direttamente da Locarno dove ha ricevuto il Pardo d’oro al miglior film. Lo spiazzante ritratto prende le mosse dall’incontro e dalla nascita di un’imprevedibile amicizia tra Marija e Kristina, due ragazze appena adolescenti nella provincia lituana grigia e degradata: la prima, più goffa e leggermente zoppa, mostra fin dall’inizio un carattere schivo ma determinato mentre l’altra, più spavalda e impulsiva, cerca di nascondere in ogni modo le proprie insicurezze e fragilità. 

In un contesto senza prospettive, in cui i festini a base di alcol e droghe sembrano essere le uniche evasioni a disposizione dei giovani, le due ragazze si iscrivono ad una locale scuola per modelle di dubbia serietà, che promette un futuro scintillante nelle maggiori capitali della moda. Le trovate e gli espedienti messi in atto dalle ragazze per poter rispettare i requisiti fisici richiesti in vista del casting sono sempre più distruttivi e umilianti e le schiacciano in un circolo asfissiante, da cui non sembra esserci via d’uscita.

È davvero sorprendente come la giovane regista lituana riesca ad alternare, e persino far coesistere in alcuni momenti, fredde e distaccate violazioni del corpo femminile, mero e unico strumento a disposizione per definire la propria identità e cercare un cambiamento, con momenti di struggente bellezza, che filtra delicata e senza clamore dall’amicizia fuori dagli schemi e dalla toccante umanità del rapporto sincero e innocente delle due protagoniste. È attraverso questo distillato di empatia e disturbante violenza autoindotta che questo film riesce ad emozionare e commuovere, insidiandosi laddove la spettacolarizzazione del macabro e dell’orrore non riuscirebbero mai.

L’esposizione prolungata alla tossicità dell’ambiente circostante porta alla totale anestetizzazione del proprio essere corporeo, che diventa materia inerte al pari del paesaggio industriale. L’unico antidoto, sembra suggerire la pellicola, consiste nella cura disinteressata, nell’amicizia, che in modo sorprendente riesce a resistere e sopravvivere quasi fosse un bocciolo in questi corpi di cemento. 

La regista si muove con agilità, sfruttando un’alternanza di campi medi e lunghi nella provincia lituana post-industriale, luogo a lei familiare essendo molto simile a quello in cui è nata e cresciuta, dove il fatiscente e il logoro, i capannoni industriali e le ciminiere assumono un significato che è ben più di quello di mero sfondo. Dal dialogo tra orizzontale e verticale sembra crearsi un ritmo visivo che narra la contrapposizione di una realtà atemporale e statica rispetto ad una vaga speranza di miglioramento, di fuga e liberazione, paesaggio che si fa riflesso interiore delle protagoniste, omaggiando la dimensione metafisica del cinema di Tarkovskij.

Il naufragio psichico e morale di una famiglia alto borghese è l’espediente con cui invece Family Therapy porta sullo schermo una feroce satira, che mette a nudo le ipocrisie e le contraddizioni della società occidentale. Quello di Sonja Prosenc è un film ambizioso e complesso che, con una straniante fotografia pulita e geometrica, può far pensare ad una rivisitazione di Parasite con un tocco assurdo e grottesco alla Lanthimos. 

L’oggetto della critica è chiaro sin dalle prime scene del lungometraggio in cui veniamo introdotti all’agiata famiglia Kranj mentre, a bordo della loro automobile ibrida, attraversano la campagna slovena ascoltando a tutto volume un’intervista di Slavoj Žižek. Mentre il filosofo critica il progressismo elitario incapace di accettare il contatto con la realtà, i protagonisti osservano con curiosità una famiglia a bordo strada con l’auto in panne che chiede soccorso, tirando dritto.

I Kranj vivono in una bolla di magnifico isolamento, ben rappresentato dalla loro lussuosa magione: una villa di design dalle pareti di cristallo circondata dal bosco, in cui il contatto con la natura circostante è soltanto illusorio. L’arrivo in casa di un misterioso e conturbante giovane straniero, che si rivela essere figlio del capofamiglia da una precedente relazione, e l’influsso magnetico che questi esercita sui tre membri della famiglia dà l’avvio, analogamente a quanto accade in Teorema di Pasolini, ad un processo traumatico di metabolizzazione della realtà e di implosione della loro bolla, fatta di false certezze e vuoti rituali. Passo dopo passo, una crepa (non soltanto metaforica) si apre nel cristallo della splendida vetrina e l’aria fresca che entra porta disordine, incertezze e sofferenza che sembrano portare all’annientamento, ma anche ad una nuova coscienza del proprio ruolo. 

Il risultato è articolato e frammentato ai limiti del dispersivo: cercare un filo conduttore coerente tra gli svariati episodi e avvenimenti non è facile, tuttavia, non è impossibile ritrovare nella famiglia Kranj comportamenti e riti più o meno familiari allo spettatore, cui viene forse lasciato il compito di interiorizzare il caos in qualche forma di sincera introspezione.

Il sistema scolastico è al centro delle più recenti pellicole provenienti dall’Ungheria, ne sono un esempio il soffocante Without Air di Katalin Moldovai, presentato l’anno scorso in concorso e Fekete pont di Bálint Szimler, proiettato quest’anno. Da un lato, la scuola rappresenta una metafora efficace del clima di oppressione che permea ogni ambito della società ungherese; dall’altro, emerge con chiarezza come il potere plasmi, già dal sistema scolastico, una generazione fondata sull’omologazione, sulla ghettizzazione del diverso e abituata all’umiliazione di chiunque osi ribellarsi al sistema.

Il giovane Palkó, da poco trasferitosi in Ungheria, fatica ad integrarsi nella rigida scuola elementare in cui è approdato. Per il semplice motivo di comportarsi e di pensare in modo difforme dai suoi compagni, viene etichettato dagli insegnanti come problematico e tanto basta per colpirlo con continue punizioni e incoraggiarne l’emarginazione, onde evitare che il contagio possa estendersi al resto della classe. Fekete pont (letteralmente “punto nero”) fa riferimento ad un meccanismo di punizione che assegna punti di demerito per ogni comportamento ritenuto anomalo. A gestire questa sorta di schedatura non è un adulto, ma un compagno di classe, trasformando così la disciplina in un ingranaggio di controllo e delazione.

Le inquadrature ravvicinate e centrali sottolineano il crescente senso di isolamento e malessere del ragazzo, soffocato da un ambiente che non gli lascia via di fuga. Senza la possibilità di ribellarsi apertamente, il ragazzo si chiude sempre più in sé stesso, evitando ogni confronto fino a una resa silenziosa.

Una sorte simile tocca alla supplente Juci, unica figura veramente empatica e positiva del film. Sensibile al disagio di Palkó, cerca di proteggerlo e supportarlo, arrivando a scontrarsi con un collega la cui ostilità nei confronti del ragazzo sfiora l’ossessione. Contrariamente al resto del corpo docente, privo di passione e iniziativa, che porta avanti un insegnamento nozionistico e sterile con l’unico scopo di stordire gli studenti attraverso documentari e ripetizione di vuote definizioni, Juci tenta di risvegliare l’energia dei suoi ragazzi. Incoraggiandoli ad esprimere le proprie opinioni e critiche, ne riaccende la fantasia e ne incanala la passione e l’interesse per la poesia e la letteratura. Tuttavia il suo stesso metodo di insegnamento, non allineato alle rigide direttive ministeriali, la rende un bersaglio: isolata dai colleghi e minacciata di provvedimenti disciplinari, la sua sorte è segnata dalla stessa logica repressiva.

Nella tragica sequenza finale, schiacciati dal peso di tali umiliazioni, Juci e Palkó esprimono ancora sul piano verticale le proprie insoddisfazioni: la prima verso il basso, accasciandosi in un corridoio sconfitta e sopraffatta, il secondo arrampicandosi in cima ad un altissimo ippocastano nel giardino della scuola, in una figurata fuga dalla realtà alla ricerca di un proprio spazio di espressione, mentre già in lontananza si sente il suono delle sirene dei pompieri chiamati dagli insegnanti.

Quello che lascia disarmati e infastiditi è la presenza di alcuni personaggi dallo spessore sottile che sembrano trovare affermazione di sè in piccoli esercizi di potere e prepotenza cui non viene posto nessun argine dalle masse di persone silenti o accondiscendenti, più disinteressate e disincantate che volontariamente complici. All’indignazione che specialmente quest’assenza di reazione ed empatia suscitano, risponde con efficacia The Man Who Could Not Remain Silent, premiato a Cannes.

Nel cortometraggio, la camera segue da vicino il protagonista, un uomo con la sua famiglia a bordo di un treno che non ha niente di diverso dal regionale che tutti abbiamo preso o prendiamo regolarmente. Il treno si arresta, salgono degli uomini in divisa che iniziano a fare domande, alzano la voce, portano via persone, strattonano. Quando arrivano al vagone, prendono di mira uno straniero, seduto di fronte. Al culmine della tensione, qualcuno nel vagone si alza, chiede spiegazioni, invoca giustizia o per lo meno rispetto, la scena si scalda per poi interrompersi bruscamente. Nel silenzio, il treno ricomincia a muoversi. Con una carrellata orizzontale la macchina da presa esplora a trecentosessanta gradi la cabina, passando in rassegna uno ad uno i sedili: tra questi ce n’è uno vuoto ma, inaspettatamente, non è quello dello straniero. Il movimento di macchina si arresta su un primissimo piano del protagonista, ancora seduto al proprio posto, che persiste sullo schermo per quasi trenta secondi.

Il rumore sferragliante sale, la luce comincia a scemare, la finestra specchio si sta chiudendo ma ancora vi vediamo riflessi sentimenti di ansia, rassegnazione, paura, frustrazione, e ciascuno può scorgervi qualcosa di diverso. 

Titoli di coda, il rumore dei giubbotti che sfregano mentre gli spettatori lasciano la platea del Teatro Rossetti, eppure la sensazione che qualcosa sia rimasto impresso nella retina della coscienza: degli interrogativi, dei dubbi, un sospetto, qualcosa di irrisolto che si è sentito chiamato in causa e che richiede ulteriore elaborazione fuori dalla sala.

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