di Giuseppe Nava
«Vivere senza conoscere il passato è come camminare nel buio». Questa frase ricorre spesso nel film Rio 2096, presentato nell’edizione appena terminata del festival Science+Fiction. E l’idea di “passato”, di confronto con una storia e una memoria sia personale che collettiva, sembra essere il filo che collega diversi dei film proposti dalla storica rassegna triestina – che, per rimanere in tema, festeggia i 50 anni con una mostra retrospettiva visitabile presso il Magazzino delle Idee fino al 23 novembre.
Ma come, si chiederà qualcuno, il passato e la memoria in un festival di cinema di fantascienza? I pregiudizi sono duri a morire, anche quelli intorno al cinema cosidetto “di genere”, quando questa stessa definizione è riduttiva rispetto alla quantità di temi che possono essere trattati anche all’interno di una cornice del tutto immaginifica come può essere quella futuristica. Un discorso che vale anche per la letteratura, se pensiamo che tra i capolavori del ‘900 si contano anche 1984 e Fahrenheit 451. Certo, anche in questa edizione non sono mancati mostri mutanti o viaggi spaziali (come nel film vincitore del premio Asteroide, Europa Report, di cui parleremo più avanti), ma la ricorrenza di riferimenti a storia e memoria è degna forse di un’attenzione in più, per le riflessioni che suscita e che vanno oltre il mero entertainment.
Nel già citato Rio 2096 – film d’animazione realizzato in modo tradizionale, con minimo apporto digitale – il protagonista, un indio Tupinamba prescelto dal dio Munhã, attraversa seicento anni di storia brasiliana dal sedicesimo secolo al 2096, combattendo ogni volta contro un nemico diverso ma identico nell’essere un’emanazione di Anhanga, lo spirito del male: prima tra gli indios contro i colonizzatori portoghesi; poi nell’800 tra i cangaçeiros (i briganti; chi ha già sentito questa storia?) contro l’esercito del neonato stato brasiliano; poi tra i rivoluzionari contro la dittatura militare, durata per vent’anni fino al 1984; e infine contro le multinazionali che controllano l’acqua potabile nel mondo inaridito del futuro. La memoria si fa unica redenzione possibile, in senso benjaminiano, rispetto alla storia fatta dai vincitori. E la spinta alla lotta è ogni volta l’amore per la stessa donna, Jainina, reincarnata nelle varie epoche come simbolo delle vittime che si ribellano a un ordine costruito sulla tirannia e sul sopruso, negli estremi tipici della storia e del folklore sudamericani (non a caso il sottotitolo del film è Uma História de Amor e Fúria).
Sempre di dittatura si parla in Painless (Insensibles), opera prima dello spagnolo Juan Carlos Medina, forse il meno “fantascientifico” tra i film presentati. La trama si sviluppa su due piani: da un lato, nella Spagna degli anni ’30, alcuni bambini sono colpiti da una strana malattia che li rende insensibili a ogni tipo di dolore fisico, e quindi potenzialmente pericolosi per sé e per gli altri; l’unica soluzione sembra essere di rinchiuderli in una clinica/manicomio (per inciso: la malattia, rarissima, esiste veramente e si chiama CIPA). Dall’altro lato, ai giorni nostri, il medico David, bisognoso di un trapianto di midollo, scopre di non essere figlio naturale dei suoi genitori. A partire dalle sue difficili ricerche nel passato della propria famiglia (il padre era un ufficiale della polizia franchista), le due storie iniziano a convergere, e porteranno al confronto doloroso con una storia che non è solo privata ma di tutta una nazione. Una storia tanto terribile quanto vicina nel tempo, che ci spinge inevitabilmente a pensare alla nostra storia, laddove spesso le problematiche legate al fascismo sono invece minimizzate – il nostro colonialismo è stato breve ma non meno feroce di altri, per dirne una – e difficilmente analizzate anche da un punto di vista famigliare, privato e personale. In Painless i bambini, insensibili al dolore fisico, si ritrovano in una situazione dove invece predomina l’insensibilità emotiva – se non proprio il sadismo – dell’autorità che si impone sempre con la forza; e tutto questo può essere letto come un’allegoria del difficile confronto tra il popolo spagnolo e il proprio passato sotto la dittatura. Il padre del protagonista, di fronte all’insistenza del figlio, replica qualcosa come: «Il passato è morto, non conta più nulla!». Ma la rimozione è un processo che lascia le ferite aperte, e la vicenda avrà le sue cicatrici solo con la catarsi della morte, in una parte finale dove si hanno più concessioni al thriller e che, forse per questo, è la più debole del film.
Il processo di rimozione viene affrontato in maniera più drastica e, stavolta sì, fantascientifica, da uno dei cortometraggi italiani presentati al festival. Si tratta di Eu-daymonia – Stay in the happynet, un lavoro di ispirazione dichiaratamente orwelliana che mette in scena un mondo futuribile dove le memorie di ognuno vengono condivise nella rete informatica Eu-daymonia, che cancella da esse ogni ricordo negativo per mantenere uno stato di totale felicità. Anche le esperienze conflittuali – politiche, religiose, razziali, ecc. – vengono “censurate” allo stesso scopo; a volte si ripresentano in qualche individuo, ma la memoria di questi viene prontamente resettata. Si tratta di una vera ribellione, di un bug del sistema o è il sistema stesso che si crea dei nemici fittizi per auto-affermarsi? A parte la resa discutibile del corto (almeno a livello di recitazione e di fotografia, che fanno a tratti ricordare certe soap opera nostrane), l’idea è declinata in modo interessante, in un tempo quale il nostro dove “condividere” è diventato la parola d’ordine dell’esperienza di vita attraverso i social network. Ma soprattutto in relazione al tema della memoria, per cui un mondo che cancella e modifica artificialmente il suo passato diventa un mondo nevrotico, dove anche la supposta “felicità” che ne deriva non può che essere artefatta, aliena.
Altri due film meritano una menzione in questa piccola rassegna. Uno è il vincitore del premio del pubblico, Robot and Frank, una commedia brillante appena appena sci-fi: Frank, interpretato da un ottimo Frank Langella, è un vecchio ex ladro di gioielli che inizia a mostrare i primi segni dell’Alzheimer. Per aiutarlo, il figlio gli affianca un robot antropomorfo programmato per aiutare gli anziani – una sorta di badante cibernetica. Dopo l’inevitabile rifiuto iniziale, Frank comincia ad affezionarsi al robot, e pensa bene di sfruttarne le capacità per riprendere la sua attività preferita, ovvero il furto. Un film leggero e godibile che mette in scena, superficialmente ma con ironia, la questione del rapporto tra l’uomo e il progresso tecnologico: se il rapporto sarà positivo (Frank e il robot) o negativo (la digitalizzazione della biblioteca, a cui Frank si oppone a modo suo), è ancora da stabilire.
L’altro è Europa Report, vincitore del premio Asteroide, storico riconoscimento del festival, realizzato da un artista diverso a ogni edizione. Il film è costruito come un documentario (in gergo found footage) e racconta il viaggio di sei astronauti verso Europa, luna di Giove, per verificare la presenza di acqua sul pianeta. La loro esperienza ci viene mostrata attraverso le immagini trasmesse alla base dalle telecamere interne dell’astronave, come in un Grande Fratello spaziale. L’azione si svolge dunque quasi esclusivamente negli spazi chiusi e ristretti dell’astronave, provocando un contrasto curioso con lo spazio infinito dell’universo che sappiamo essere al di fuori, nonché una sensazione di crescente claustrofobia. Un film molto “scientifico”, non ultimo per l’abnegazione dei protagonisti verso la loro missione, che li porta tra incidenti e fenomenti inspiegabili fino al tragico epilogo. L’idea si sarebbe benissimo prestata a svariati sviluppi nel senso di un’indagine psicologica e filosofica del viaggio umano nell’universo, ma anche così Europa Report è un ottimo film, splendidamente realizzato, che ha meritato la preferenza della giuria.