Intervista a Pier Aldo Rovatti
La filosofia scompare, viene fatta dissolvere lentamente, nel momento in cui le viene negato – passo dopo passo – lo spazio da sotto i piedi. Ma in questa progressiva dissolvenza non si dà per vinta e lancia dietro sé una richiesta d’aiuto.
Dai centri di potere cominciano ad affermarsi idee precise: abbreviare il ciclo di studi superiore da 5 a 4 anni (con la conseguenza di ridurre lo studio della filosofia da 3 a 2 anni); e, a livello universitario, eliminare l’insegnamento della filosofia teoretica dai corsi di laurea di pedagogia e scienze dell’educazione. Come mai? Una disciplina troppo specialistica, questa la motivazione ufficiale.
Simili misure rappresentano una cartina di tornasole di una scelta (politica) già presa da tempo: la preferenza per un tipo di sapere tecnico, fortemente improntato all’applicazione, che volta le spalle all’umano – e, in questo gesto deciso, lo dimentica. Una tecnicità che invade ogni campo del sapere e dell’azione (qualcuno sta pensando ai governi, e ministri, “tecnici”?), facendosi forza con la pretesa d’assoluta “oggettività” contro cui poco vale il pensiero critico della filosofia.
I filosofi Roberto Esposito, Adriano Fabris e Giovanni Reale lanciano così il loro appello (per firmarlo clicca qui), chiedendo al nuovo governo impegni precisi non solo per l’ammodernamento delle strutture in cui si vive il sapere (scuole e università), ma anche per il sostegno ad una cultura “autenticamente umanistica, come sfondo all’interno del quale anche la ricerca scientifica e tecnologica acquista significato”. Perché, come già scriveva Friedrich Nietzsche, la scienza “dipende in tutto e per tutto in ogni suo fine e metodo da concezioni filosofiche, ma lo dimentica facilmente”.
Tra i primi firmatari c’è il filosofo Pier Aldo Rovatti, teorico del “pensiero debole”. Già professore (sebbene cerchi di tenere questo appellativo il più lontano possibile da sé) nell’Università di Trieste di filosofia estetica, teoretica e contemporanea, da qualche mese è impegnato nella “sua” scuola, un’iniziativa che ha raccolto il doppio degli iscritti previsti, dimostrando quanto la sete di filosofia sia viva.
Pier Aldo Rovatti denuncia, senza mezzi termini, l’«aziendalizzazione della scuola», espressione che individua un processo in cui solo quel che può essere quantificabile, valutato secondo criteri arbitrari e niente affatto “oggettivi”, infine “utile” a perseguire la mission aziendale, ha valore.
Hanno giustificato il taglio della filosofia da scuola e università dicendo che si tratta di una disciplina troppo specialistica.
La cosa fa sorridere. Il caso è stato sollevato dalla Società italiana di Filosofia teoretica che ha stigmatizzato questo aggettivo, volendo anche far notare che la divisione della filosofia in tanti “rami” è un’operazione incongrua e, in un certo senso, assurda. Tra questi tanti rami ce n’è uno che mantiene un nome generico e altisonante al tempo stesso – ovvero filosofia teoretica – che possiamo tradurre semplicemente con “filosofia”.
La filosofia dovrebbe essere animata da un esercizio di pensiero critico che non ha confini di tipo storico, né di categoria, e che è proprio il contrario dello specialismo. È qualche cosa dove il docente di filosofia teoretica può fare proprio perché non ha restrizioni di tipo classificatorio, il che gli permette di prendere gli esempi da dove vuole: tanto da Platone quanto da Derrida.
L’accusa di “specialismo” è veramente irrisoria e dimostra la malafede, la volontà di buttare a mare la filosofia in quanto tale, colpendo proprio il luogo dove la filosofia è senza specificazioni (ovvero la filosofia teoretica).
Spesso viene anche detto che è qualcosa di inutile. Cosa ne pensi?
Mi viene in mente quel giro di conferenze che fece in giro per il mondo Jacques Derrida. Ne fece una anche a Trieste, in seguito alla quale uscì un volumetto scritto da lui e me insieme (“L’università senza condizione”, ndr), sul fatto che la filosofia non debba avere condizioni, dev’essere incondizionata. Il che si può collegare con una certa “inutilità”: questa parola lascia trapelare il fatto che la filosofia, per essere utile, debba essere al servizio di qualche pratica specifica (e quindi ne riceva, in qualche modo, un effetti di ritorno). Se per esesmpio la filosofia dev’essere filosofia della scienza, è chiaro che la scienza è al primo posto e la filosofia si mette a guardare cosa fa la scienza e a dare dei consigli. Invece la filosofia non dovrebbe essere condizionata né dalla struttura organizzativa della disciplina dentro la scuola, né da frontiere problematiche o tematiche, e quindi dev’essere senza condizioni. In quel testo Derrida osserva che il non avere condizioni della filosofia è proprio ciò che permette alla filosofia di esistere.
Non solo alla filosofia, ma anche all’idea stessa di professione: non una professione collegata alla professionalità specifica e specialistica, ma qualcosa di legato al professare, che è in qualche modo un insegnare. A questo punto il discorso della filosofia si viene quasi a sovrapporre col discorso stesso dell’insegnamento e riguarderebbe qualunque insegnante che si ponga il problema del significato e della criticità di quel che sta facendo.
In questo senso è ancora più emblematico il fatto che l’insegnamento della filosofia sia stato tolto proprio dai corsi di laurea che dovrebbero preparare i futuri insegnanti (pedagogia e scienze dell’educazione).
Sono stati così ciechi da non riconoscere che sarebbe invece proprio quello che serve. Al posto della filosofia hanno messo delle propedeutiche – delle tecniche – per insegnare meglio le varie discipline. Dei consigli per essere migliori (a livello di prestazione) nell’insegnare questo o quell’altro. L’idea che ho sempre avuto è che la filosofia intesa come esercizio critico del pensiero dovrebbe essere presente in tutti i comparti del mondo universitario, anche in quelli scientifici. E dovrebbe essere presente, a maggior ragione, anche nella scuola superiore. Certo, la presenza pura e semplice della parola filosofia – da sola – non garantisce nulla: ci possono essere cattivi insegnanti. Se poi gli insegnanti vengono formati in una scuola che censura la filosofia, è chiaro che il risultato sarà molto discutibile e deludente.
Nella nostra società alla riduzione dello spazio concesso al sapere umanistico corrisponde un’ulteriore valorizzazione della tecnica, il che si riflette giocoforza nella politica. Anche nel “nuovo” governo Renzi ci sono dei ministri tecnici, guarda caso proprio nei ruoli “chiave”. Voi avete lanciato questo appello al governo Renzi, che cosa vi aspettate?
Il nuovo ministro dell’istruzione (Stefania Giannini, segretario di Scelta Civica, ndr) viene da un’area politica che ha collegamenti più con il mondo della Confindustria che con quello umanistico: c’è poco di buono da aspettarsi. In ogni caso l’esempio del politico e del tecnico funziona fino a un certo punto. Al discorso dei “tecnici” in politica bisogna affiancarne un altro riguardante l’ignoranza. Un’ignoranza doppia: il tecnico ignora la strategia politica, mentre il politico in generale ignora il resto, al punto che noi siamo un po’ presi alla sprovvista quando vediamo che a un certo ministero viene chiamato un ministro che ha tutta un’altra storia personale che non ne sa nulla. Vogliamo che la persona che arriva lì ne sappia qualche cosa.
Tornando al discorso della filosofia: non è che l’esercizio critico sia fatto nel cielo: deve invece applicarsi a oggetti specifici, molto più specifici di quelli che si suppone siano gli oggetti delle tecniche. Dev’essere quindi una filosofia concreta, per arrivare lì ci vogliono un po’ di passaggi; ma il personale filosofico di oggi non fornisce tante promesse che ciò avvenga.