di Eleonora Zeper
La Verità? È in Shakespeare; un filosofo non potrebbe appropriarsene senza esplodere insieme col suo sistema.
Cioran
Il Globe Theatre omaggia il quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare (23 aprile 1616–23 aprile 2016) portando in scena Hamlet in un progetto mondiale, una tournèè Globe to Globe iniziata nel 2014 e della durata di due anni. Il 23 aprile la compagnia sarà infine di ritorno a Londra per l’ultima rappresentazione. Trieste, con due repliche lo scorso 16 aprile, è stata l’unica tappa italiana.
Gli attori, fatta eccezione per il protagonista, si trovano ad impersonare tutti più di un ruolo; per quanto mi sfugga la ragione profonda, filologica o filosofica che sia, per cui Ofelia non si camuffi nemmeno per impersonare uno dei consiglieri della corte danese o per cui la regina Gertrude si improvvisi becchino, gli attori sono tecnicamente capaci: suonano, ballano e cantano con maestria. Lo spettacolo è senz’altro ben costruito, la messinscena è vivace, non ci sono momenti di caduta né buchi, chi invocava uno Shakespeare meno impostato e serioso, si ritrova accontentato dalla regia di Dominic Dromgoole e Bill Huckurst.
A chi è rivolto questo spettacolo? La risposta che la compagnia inglese ci suggerisce con marcata insistenza è chiara: Hamlet è per tutti, Shakespeare è per tutti, l’arte è per tutti. Il dono delle lingue è certo proprio della grande arte, che se non proprio a tutti sa certo parlare a molti, ma qua si rischia di confondere la misteriosa dote di universalità dell’artista con un generico e ‘buonistico’ messaggio di uguaglianza fra le genti e fra i singoli esseri umani. È il cast stesso a darcene prova: nella replica del pomeriggio, ad esempio, Amleto è scuro di pelle (Ladi Emeruwa), Ofelia (Jennifer Leong, la figlia di uno dei maggiori uomini politici di Hong Kong) è asiatica, Claudio (Rawiri Paratene) è di origine maori, Orazio (Phoebe Fildes) è una donna. Si tratta del primo spettacolo rappresentato in Arabia Saudita nel quale uomini e donne salgono assieme sullo stesso palco ed è stato messo in scena perfino al palazzo dell’ONU.
Si vuole dunque far passare l’idea di un’arte che va oltre le differenze di etnia e di genere, che travalica tempo e spazio e che pertanto non necessita di alcun inquadramento storico o di alcuna conoscenza pregressa per essere fruita. Molto riduttivo, direi, populista e riduttivo. In questa direzione va anche la scelta, alquanto bizzarra, di mettere su degli schermi dei brevi riassunti in italiano per far capire al pubblico che cosa stia succedendo in scena. Come se in Hamlet fosse importante la storiella che c’è dietro: dateci il testo, in inglese o in italiano, o non dateci nulla! S’inneggia dunque ad uno Shakespeare capace di andare oltre i confini di spazio e tempo, ad uno Shakespeare attuale e universale.
Sebbene l’abbigliamento degli attori non paia essere temporalmente connotato, lo è geograficamente; vestono infatti tutti un po’ all’inglese, da un Polonio (Keith Bartlett) impanciottato a un Amleto che nella scena dei becchini pare un collegiale del King’s College di Londra. Il messaggio che c’è dietro ha un forte sapore imperialistico: tutti i popoli in nome di Shakespeare, della lingua e della moda inglese. Populista e imperialista dunque, uno Shakespeare da esportare come lo stile di vita occidentale, uno Shakespeare democratico, immagine egli stesso della democrazia d’esportazione.
Ma tutto questo, a patto che ce ne sia precisa consapevolezza da parte di attori e registi, può essere perdonabile, non da me, ma perdonabile. Si mette sempre infatti una parte di sé nell’opera che ci si accinge a rappresentare, è un processo inevitabile e forse perfino necessario. Si tratterebbe dunque di una rappresentazione capace di parlare anche della nostra situazione attuale e di esprimere un messaggio politico forte di universalità della tragedia umana, per quanto sotto l’egida del Commonwealth.
Ma quello che non trovo in alcun modo perdonabile, la grande mancanza di questo spettacolo, è che quella stessa tragedia che si vorrebbe proclamare a gran voce come universale, manca del tutto. La bravissima regina Gertrude (Miranda Foster) pare l’unica a recitare davvero l’Hamlet. In Ofelia non si sente amore, dolore o follia, Polonio non è altro che una macchietta, la divorante sete di potere di Claudio manca quasi del tutto.
E Amleto? Nella seconda parte dello spettacolo, in special modo nelle scene recitate assieme a Gertrude, pare in parte cogliere la vertigine del personaggio. Ma in ogni caso è un po’ acerbo, tanto energico e un po’ troppo ‘sano’ per essere Amleto. Dov’è quell’oscuro personaggio che si rimprovera di non avere la forza di fare ciò che è giusto e che si rammarica di non provare un dolore così acceso da poter vendicare il padre senza indugio? Dov’è il principe che prova invidia per il dolore, che par più vero del suo, dell’attore che piange Ecuba sulle scene e che si perde in quel voraginoso interstizio che c’è fra pensiero e atto? Dov’è quell’uomo che rifiuta l’amore per la donna e per la vita e che, fingendo la più vera delle pazzie, si getta infine a capofitto verso un comune destino di morte?
È stato chiesto a Philippe Daverio cosa ne pensasse della sua missione di divulgatore storico-artistico: ha risposto che il suo compito non era quello di portare l’arte alla gente, ma di portare la gente all’arte come Tamino al tempio ed è questo che mi sarei aspettata dal Globe Theatre. Ho trovato maestria, tecnica, un ‘buonismo’ politically correct e profanazione. Teatro, ma non dramma, cultura, ma non Shakespeare, un pomeriggio piacevole, ma nessuna umana verità da cogliere.