di Piero Rosso
Nell’accezione comune, “eredità” rappresenta il trasferimento di patrimoni, memorie storiche, dati virtuali, etica e moralità a un beneficiario. In un primo momento, l’idea di ricevere appare vantaggiosa; presto ci si accorge che essa non è un atto di libertà.
In questa trasmissione si crea un rapporto di debito con il donatore: i beni di cui fruire e i nodi critici su cui riflettere non sono né un godimento svincolato, né una speculazione spensierata; compare un nuovo senso del dovere che impone di non tradire la memoria e la volontà del testatore. A questo proposito, ammetto d’aver pensato unicamente al punto di partenza: esiste una maniera di raccontare storie che tolga elementi invece di aggiungerne?
Lontani dall’avere una risposta chiara, è meglio chiarire fin da subito: non si tratta di migliorare il lavoro di scalpello e affinare la tecnica di pulizia dei racconti – in quel caso le Letture da un minuto di Herman Hesse, i Pensieri di Pascal, o gli aforismi di Karl Kraus sarebbero stati sufficienti; non è nemmeno questione di cercare un nuovo “mostro” – così Joyce definiva Finnegan’s Wake – capace di demolire gli impianti narrativi. Questo perché, come ricordò David Foster Wallace, le creature letterarie troppo aggressive lasciano in eredità il dovere di ricostruire:
Il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse (D. F. Wallace, intervista di Larry McCaffery, “Review of Contemporary Fiction”, estate 1993).
L’eredità, al contrario, va intesa come un campo di lotta. Solo in questo senso essa fuoriesce dall’economia della memoria e non obbliga a scegliere, in toto, tra l’accettazione e il rifiuto.
Antichi maestri di Thomas Bernard propone di lavorare in questa direzione, un passo accanto alla distruzione. Che rapporto si può instaurare con i predecessori, ci si chiede, se non una simultanea pulsione d’amore e di morte? Cosa rimane di Heidegger (“ridicolo filisteo nazista in calzoni alla zuava”), di Shakespeare o di Goethe se non il senso di ridicolo? Il signor Reger è, in effetti, un protagonista con l’occhio fino per l’errore, ci racconta le mancanze nelle opere di autori irrinunciabili: la demolizione dei maestri, qui, assomiglia a una dichiarazione d’amore, capace di ammorbidire la distruzione dell’eredità senza mai sfociare nel ripudio.
Esiste, poi, l’esperimento inverso, quello che lavora un passo accanto alla conservazione. Si tratta forse dell’attitudine che più si avvicina al classico modo di raccontare storie, ma non vi coincide perfettamente.
È necessaria, però, una piccola premessa. Memoria, eredità e racconto sono mediati da un elemento comune a tutti: il tempo. A questo proposito, è utile citare un trattato quattrocentesco di Domenico da Piacenza, Dela arte di ballare et danzare, dove si definisce la danza come una composizione di istanti, una tensione tra immobilità e fluidità del moto. Giorgio Agamben, a riguardo, scrive:
Domenico chiama fantasma un arresto improvviso fra i due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica (Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 12).
Secondo questa visione, la danza sarebbe allora una risultante, un insieme di istanti “caricati di tempo”. La questione riguarda la percezione del movimento: esso in realtà non esiste se non come insieme. Viene spontaneo chiedersi se l’eredità funzioni allo stesso modo.
Di fronte a questa possibilità, durante la scrittura di questo articolo, sono tornato più volte alla domanda iniziale: cosa connette l’eredità con la perdita? Che tipo di letteratura potrebbe nascere dallo sviluppo di questa discussione?
Per coincidenza, ho aperto un libro su Movimento irrigidito di Wisława Szymborska:
Miss Duncan, la danzatrice
ma quale nuvola, zeffiro, baccante,
chiaro di luna sull’onda, alito, dondolio!Quanto sia dritta nell’atelier del fotografo,
strappata, pesante di carne, al movimento, alla musica,
data in pasto a una posa,
a una falsa testimonianzaDietro il paravento un busto rosa, una borsetta,
nella borsetta un biglietto per un piroscafo,
partenza l’indomani, ossia sessant’anni fa;
mai più, però alle nove esatte del mattino.
In confronto a Miss Duncan, i soggetti di Degas, così presi nel loro movimento di luce, non raccontano la stessa tristezza. Szymborska fa sparire il messaggio diretto, ci lascia in mano l’indizio di una storia incompleta. Grazie alla sospensione del tempo, siamo capaci di spostare lo sguardo, violare la privacy dei personaggi, soffermarci su una possibile fuga fallita, un amore perso o raggiunto, un momento di follia: che sia questo l’unico modo di ritrovarci tra le mani un’eredità non normativa?