di Giuseppe Gori Savellini
Non è un racconto scontato quello de La masnada delle aquile (Edizioni Infinito, 2020), come non è scontata la vita di Erion: ragazzo poco più che bambino che attende l’arrivo della maggiore età in un centro di accoglienza alle porte di Trieste. Arrivato non si sa come assieme a tanti suoi conterranei per quello che è un passaggio inevitabile nella vita di molti giovani kosovari albanesi nati dopo la guerra: lasciare la famiglia, da soli, per raggiungere l’Italia prima di compiere i diciotto anni. Per molti ragazzi un vero e proprio rito di passaggio all’età adulta.
Uno sguardo non facile, quello dell’autore Riccardo Roschetti, perché il libro non racconta tanto il cammino e neppure la vita che in tanti vengono a conquistarsi in Italia, ma proprio quell’interregno di alcuni mesi o anni che passa tra l’arrivo alla frontiera italiana e il compimento della maggiore età. Un periodo di vuoto, dove non si è ancora cittadini con permesso di soggiorno, ma già non si è più figli o fratelli. Nel libro di Riccardo Roschetti soprattutto non è scontata la particolare cura per l’espressione linguistica, centrale per la comprensione delle dinamiche narrate. L’autore stesso torna su tale questione in una nota dell’epilogo, riflettendo sulle peculiarità della lingua parlata dai protagonisti. Roschetti dice che i suoi protagonisti parlano
un linguaggio spontaneo, gergale, politicamente scorretto e spesso sfrontatamente volgare; questa scelta stilistica è lo specchio del gusto e dei modi usuali dei ragazzi coinvolti ed è stata adottata per coerenza e per efficacia espressiva, non per artificio letterario concepito a tavolino.
Una questione – quella dell’adesione della letteratura al parlato delle classi più svantaggiate – su cui la critica letteraria si divide almeno dei tempi di Pasolini (e prima ancora di Gadda), e su cui si dibatte ancora oggi parlando di autori importanti come Saviano, Genna o Siti. E lo stesso potrebbe dirsi per il cinema, basti pensare al film Gomorra di Matteo Garrone, dove è l’italiano a suonare straniero, alieno, mentre il dialetto ci si fa incontro – in maniera quasi documentaristica – come ultimo possibile residuo di realtà.
Questo è il lavoro che fa anche Roschetti, non a caso di formazione antropologica: sostituire il dialetto con il gergo, l’argot che i giovani kosovari arrivati in Italia usano tra di loro e, soprattutto, con le altre comunità linguistiche (italiani compresi). Qui sta, secondo me, il fulcro del libro di Roschetti: nel mimetismo che gli consente di raccontare glorie e soprattutto miserie dei giovani protagonisti, mantenendo sempre una prospettiva interna al gruppo stesso che gli consente di non essere mai accondiscendente, né tanto meno accusatorio. E davvero i giovani kosovari sono i nuovi ragazzi delle borgate raccontate da Pasolini negli anni Cinquanta, con i loro codici, le loro leggi, la loro lingua e la frustrazione di non appartenere – ancora – a nessun mondo nuovo.
La storia che Riccardo Roschetti racconta – intessendo su un unico protagonista le storie di tanti ragazzi che ha conosciuto con il suo lavoro diretto di educatore in comunità di minori non accompagnati – è quella di Erion, giovane kosovaro alle soglie della maggiore età arrivato in Italia per compiere il progetto ideato per lui in famiglia.
Attraverso la sua storia scopriamo una realtà complessa: la realtà dei giovani kosovari che prima di compiere diciotto anni, grazie alla compiacenza delle istituzioni kosovare, vengono inviati dai genitori in Italia (dove la legislazione obbliga alla loro accoglienza ed alla loro istruzione fino al compimento della maggiore età). Si parla da sempre di minori non accompagnati, se ne è parlato durante le guerre nei balcani – abbiamo tutti in testa le immagini dei bambini in fuga da Sarajevo o il racconto di Luca Rastello nel suo fondamentale libro La guerra in casa. Se ne parla ancora oggi, inquadrando i profughi siriani o pakistani in arrivo via mare o sulla rotta balcanica: una realtà complessa e tragica, di cui Roschetti ci racconta la storia meno appariscente, più vicina, e forse anche per questo più inaspettata.
Il libro infatti descrive le loro piccolezze, le astuzie, la violenza, i furti, il sesso e l’amicizia, il tutto filtrato attraverso un alone di sfruttamento e superficialità. La voglia di questi ragazzi di uscire dalla periferia (la campagna carsica), per essere temuti e rispettati in centro, per le vie dello shopping triestino, sfoggiando abiti firmati, rubati. Lo sprezzante e chirurgico giudizio che hanno dei loro non sempre ospitali concittadini. Sanno giudicare gli altri, i ragazzi di Roschetti, decisamente meglio di quanto non sappiano giudicare se stessi. Non c’è empatia nei loro sguardi, né tra i loro né in quelli che rivolgono agli educatori, così come – specularmente – non c’è giudizio da parte dell’autore nel raccontarci le loro vite.
Questo è il punto più forte de La masnada delle aquile: il totale coinvolgimento nelle vite che racconta si sposa con il più categorico rifiuto di esprimere un giudizio su di esse. Ed è questo che, nonostante tutto, ci fa sentire così vicini a Erion e ai suoi compagni: viviamo le loro avventure e aspirazioni senza sentirci migliori o peggiori, senza giudicare loro e le loro famiglie quella totale mancanza di ambizioni e progettualità che il nostro mondo occidentale ormai ci ha insegnato a vivere come un’orribile colpa.
Le loro sono ambizioni semplici, che hanno a che fare con la sopravvivenza e che scopriamo nel capitolo finale quando Erion, ormai diciottenne, va alla ricerca delle proprie origini. L’orrore di una nascita in tempo di guerra, il padre conosciuto dopo un anno, la paura e la necessità di vivere in una casa nuova, senza “segni dei proiettili sui muri: gli bastavano quelli che aveva sulla gamba”. Ed ecco che allora, pian piano, solo all’ultimo, si comincia a empatizzare, a comprendere senza paternalismi tutta la difficoltà, gli strati di non-senso, che ha dovuto attraversare un ragazzo che – lontano dalla propria lingua, dalla propri famiglia e dalla propria casa – nel nostro mondo non vede altro che un luogo “senza segni dei proiettili sui muri”.