Una solitudine rumorosa e affollata

di Lilli Goriup

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“Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari”.

Nel lungo incipit di Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal (1977), autore ceco, praghese d’adozione, la cui vita si snoda lungo il corso del secolo breve, sono contenuti in nuce i rumori che affolleranno la solitudine del protagonista, Hanta. C’è innanzitutto il rumore della pressa meccanica cui Hanta lavora macerando carta vecchia. Il lavoro della pressa scandisce il ritmo delle giornate ed egli, manovrando la pressa, imprime un’anima al suo lavoro: è l’operazione solitaria di un artigiano, testimone di un mondo che sta svanendo, mentre uno nuovo incombe all’orizzonte del futuro, quello della meccanizzazione e della depersonalizzazione produttiva. Si può intravedere forse anche la disillusione verso l’idea comunista, tradita dal regime nel momento in cui i libri che Hanta macera sono in fondo gli stessi che Hrabal scrive, incontrando la censura.

In secondo luogo, ma non per importanza, c’è il rumore dei libri. Destinati al macero dal regime, salvati da Hanta, che ne porta a casa più esemplari possibile, echeggiano nel flusso di coscienza del protagonista come altrettante voci. Così l’operaio finisce per farsi una cultura e dire: ”contro la mia volontà sono istruito”. L’espediente narrativo  di porre una biblioteca nelle mani di un personaggio di estrazione umile consente all’autore di tessere, attraverso le parole del suo protagonista (suo doppio; molti elementi autobiografici ricorrono nel romanzo, non da ultimo il mestiere di imballatore di carta da macero, svolto per un periodo dallo stesso Hrabal), una riflessione esistenziale che inevitabilmente s’intreccia con un elogio della lettura, senza cadere in nozionismi. Al contrario, può attuare delle scorribande tra Goethe e Schiller, Hölderlin e Nietzsche – solo per citarne alcuni – in maniera eterodossa, lontana dal rigore accademico. “così compresi che al mondo non dipende proprio nulla da come le cose finiscono, ma tutto è soltanto desiderio, volere e anelito, somiglianti all’imperativo categorico di Immanuel Kant” dirà ingenuamente Hanta, ma a suggerirgli il provocatorio accostamento è, in maniera sottile, Hrabal.

C’è infine il rumore delle osterie e delle bettole di Praga, una Praga tratteggiata appena, principalmente attraverso i luoghi frequentati da Hanta. Sin da quel primo accenno – “perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio […] come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari” – si può intuire che Hanta è un grande bevitore. Se la pressa scandisce il ritmo della giornata lavorativa, sono le generose birre boeme a rallentarlo. Essendo spesso ubriaco, Hanta – o forse si dovrebbe dire Hrabal – può declinare il suo lungo monologo in visioni ora oniriche, ora deliranti, ora di memoria e ricordo, che s’intersecano, ovviamente, con la letteratura. Non c’è tuttavia velleità di maledettismo nelle dissolutezze di Hanta: sono sbronze rionali, colossali e dimesse al tempo stesso, in cui le donne della vita del protagonista – poche e anch’esse umili – sono vagheggiate con malinconica tenerezza e quasi timore.

La solitudine di Hanta, forse come anche, si può immaginare, quella di Hrabal, oltre che rumorosa è anche piuttosto affollata; è una solitudine sussurrata con la franchezza di un ubriaco che si svela da dietro le citazioni dell’intellettuale, dove dalla riflessione sull’esistenza si alza un canto d’amore, mai sopito, alla letteratura.

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