di Eleonora Zeper
Nel 1611 La tempesta viene messa in scena al Globe Theatre di Londra: si tratta dell’ultima opera di Shakespeare, quella alla quale il drammaturgo affida il proprio addio alle scene. Opera ambigua, che sfugge alla classificazione dei generi e che è stata inserita fra i cosiddetti romances, i drammi romanzeschi, testi caratterizzati da un’atmosfera malinconica e fantastica e che uniscono elementi strutturali tipici della commedia – quali le peripezie, l’intrigo amoroso e il lieto fine – a classici temi tragici shakespeariani come l’ambizione, il potere e il desiderio di libertà.
Il dramma inizia quando gran parte degli eventi sono già accaduti. Il mago Prospero, legittimo Duca di Milano, insieme alla figlia Miranda, è stato esiliato da circa dodici anni in un’isola abitata dagli spiriti, dopo che il geloso fratello di Prospero, Antonio, aiutato dal re di Napoli Alonso, lo ha deposto e costretto all’esilio. Prospero viene servito da uno spirito, Ariel, che egli ha liberato dall’albero dentro il quale era stato intrappolato dalla strega africana Sicorace. Il figlio della strega, un mostro deforme di nome Calibano, è l’unico abitante mortale dell’isola prima dell’arrivo di Prospero; a causa del suo tentativo di violentare Miranda è divenuto schiavo di Prospero. Shakespeare, contrariamente a quanto in genere accade nelle sue opere più note, non solo rispetta le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, ma sottolinea più volte, per bocca dei personaggi, che l’intera vicenda dura tre ore, quanto lo spettacolo teatrale stesso.
Prospero, avendo previsto che il fratello Antonio sarebbe passato nei pressi dell’isola con una nave, ordina ad Ariel di scatenare una tempesta che causerà il naufragio della nave. Sulla nave viaggiano anche il re Alonso, suo fratello Sebastiano, il principe Ferdinando e il consigliere Gonzalo. Prospero, con i suoi incantesimi, riesce a dividere tutti i superstiti del naufragio cosicché Alonso e Ferdinando credano entrambi che l’altro sia morto. I viaggiatori sono così separati: Ferdinando, approdato sulla spiaggia, viene condotto alla grotta di Prospero; Antonio, Alonso, Sebastiano e Gonzalo finiscono in un’oscura foresta; Stefano e Trinculo, due marinai ubriaconi, esplorano l’isola alla ricerca di vino. Ferdinando e Miranda si innamorano a prima vista, ma Prospero finge con entrambi di voler rendere il ragazzo suo schiavo per vendicarsi di Alonso: in realtà il suo piano è quello di incoraggiare la relazione tra i due.
Ariel fa calare un sonno magico su Alonso e Gonzalo e mentre i due dormono Antonio cerca di convincere Sebastiano a uccidere il fratello per impadronirsi del regno; proprio in quel momento lo spirito fa svegliare Alonso e Gonzalo e i due smascherano il piano di Antonio. Dall’altra parte dell’isola, nel frattempo, Calibano incontra Stefano e Trinculo e li scambia per creature divine discese dalla luna: insieme cercano di ordire una ribellione contro Prospero che però, sempre grazie all’intervento di Ariel, fallisce.
L’amore di Ferdinando e Miranda resiste alle molte prove cui Prospero li sottopone, così l’uomo decide di abbandonare le resistenze e, per benedire la loro unione, organizza uno spettacolo in cui gli attori sono degli spiriti al suo servizio. Ed è qui, al venir meno della visione, che il mago pronuncia il celebre monologo sulla vanità delle umane cose, destinate a scomparire come gli spiriti da lui evocati. “Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”: è un malinconico invito alla riflessione sul rapporto fra realtà, mondo onirico e rappresentazione scenica.
Tutti i piani di Prospero funzionano: Ferdinando e Miranda si innamorano, Alonso è devastato dal dolore, Antonio è smascherato e Calibano punito: a questo punto il Duca rinuncia alle arti magiche e riunisce tutti i personaggi nella sua grotta. Prospero torna a essere Duca di Milano e il suo ducato sarà unito al Regno di Napoli col matrimonio di Ferdinando e Miranda; Alonso, Antonio e Sebastiano vengono perdonati; Calibano si redime e giura fedeltà al suo padrone. Prospero chiede un ultimo favore ad Ariel, quello di assicurare mare calmo e vento propizio alla nave che l’indomani lascerà l’isola, dopodiché lo spirito sarà liberato dalla sua prigionia. A questo punto Prospero si rivolge al pubblico e, esplicitando il carattere metateatrale del dramma, chiede che anche gli attori siano lasciati liberi con un applauso.
La magia di Prospero è infatti sempre chiamata “art”, il protagonista è il doppio del drammaturgo, poiché come il drammaturgo crea la vicenda e guida i personaggi attraverso di essa. Prima li disperde per l’isola e poi li riunisce nella sua grotta in un passaggio dall’uno ai molti e dai molti all’uno di chiara matrice neoplatonica. La riflessione che ne La Tempesta Shakespeare ci propone sull’arte drammatica è infatti senz’altro ispirata all’estetica platonica; Prospero è il dio della sua isola come Shakespeare lo è della sua opera drammatica. Come un dio Prospero allontana, isola e mette alla prova tramite dolorose peripezie le sue creature e il romance, in quanto commistione di commedia e tragedia, diviene simbolo di ogni esistenza umana, tanto dell’allontanamento dell’uomo dal dio quanto del suo sofferente ritorno ad esso. Gli strumenti attraverso i quali il mago-artista agisce e crea la propria opera sono Ariel e Caliban, l’ispirazione di carattere divino e l’istinto bestiale, soggiogato e sfruttato dall’artista ai suoi fini. Prospero, infine, perdona Caliban e libera Ariel, rende la libertà a quei dèmoni che lo avevano servito per anni: è il crepuscolo degli dèi.
Quanto di tutto questo è stato colto ed espresso nella messinscena di Roberto Andò, al teatro Rossetti di Trieste dal 13 al 17 dicembre 2019? Non molto, a dire il vero. Lo spettacolo è piacevole agli occhi; alla grotta di Prospero Andò sostituisce uno stanzone dai colori pastello con letti in movimento e libri un po’ ovunque. Alcune scene sono rappresentate dietro ad un telo e sotto gli occhi del mago, vero demiurgo del dramma. Ci sono scelte, però, che rimangano incomprensibili: perché parlare di Sebastiano come se fosse presente quando il personaggio di Sebastiano non viene impersonato da nessun attore? Perché i letti vagano su e giù per la scena e, ad un certo punto, compare una cucina? Perché Prospero pronuncia il celebre monologo finale accendendosi una sigaretta?
Ariel è un ottimo Filippo Luna, ma fare dello spirito della poesia un buffo maggiordomo è un espediente già incontrato nella messinscena di Tato Russo del 2007/2008 e non fa altro che farci rimpiangere l’Ariel di Strehler. Bravo è senz’altro anche Caliban (Vincenzo Pirrotta) e alcuni dei personaggi minori come Gonzalo (Gianni Salvo) e Ferdinando (Paolo Briguglia). Ma Prospero manca, un rigido Renato Carpentieri pare non addentrarsi nelle profondità del testo, le battute più importanti per comprenderne la portata filosofica passano quasi inosservate. Pare che l’incomprensione mediatica di cui è stata vittima negli ultimi anni la celebre battuta di Prospero (“Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”) si estenda all’intero testo e che, sotto l’accattivante patina fantastica che permea l’intera rappresentazione, il regista Andò non scorga altri significati.
Nel complesso uno spettacolo discreto, ma, data la buona compagnia di attori dello Stabile di Palermo e l’originalità di alcune soluzioni sceniche, possiamo considerarla un’occasione perduta per rendere un pieno omaggio all’arte di Shakespeare.
Ringrazio Benedetta Bratos e tutti i miei studenti per gli spunti preziosi