Un’esistenza spaccata. “Volevamo magia” di Matteo Quaglia

di Enrico Cattaruzza

Immagine di pubblico domino, crediti qui

Inganna con maestria, Matteo Quaglia, in Volevamo magia, romanzo di esordio edito da nottetempo. Imbastisce un’atmosfera alla Roberto Bolaño in salsa adriatica, affida a un narratore dimesso ma ironico il compito di portarci lemme lemme dentro un intreccio da noir cine-assicurativo. Predispone l’inconsueto scenario di una Trieste contemporanea e straniera, scura e senza passato, di un Nord-Est in fiamme. Sembra perfino disfarsi delle pretese psicanalitiche dei narratori che l’hanno preceduto nella città d’adozione – Quaglia è tarvisiano, ma vive nel capoluogo – incaricando del racconto una voce confidenziale e amica, che mai vorrebbe lasciarci soli nel deserto. Eppure, lo fa, e nel modo più spietato.

Un narratore senza nome, un everyman studente di Giurisprudenza, innamorato di cinema e libri, vive la sua vita di fuori sede a Trieste. Legge, beve, forse scopa, scrive su una rivista letteraria, ha un amico un po’ sbalestrato, si invaghisce di una ragazza che in verità non conosce: Ludovica. Questa tipa appare e scompare, lo invita a casa per limonare ma c’è in lei qualcosa di strano, perturbante, un po’ intravisto dal narratore, un po’ riferito da altri. Come spesso accade, l’immagine di Ludovica cresce con la sua assenza, l’idea di lei infesta il narratore man mano che si immerge nell’esistenza piccolo-borghese che la laurea in Legge inaugura: un impiego nelle assicurazioni, la convivenza a casa di Ambra (una collega carrierista), il distacco per inerzia dagli amici… Tutto come al solito, tutto come nella cosiddetta vita vera, se non fosse che un amico comune (del narratore e di Ludovica) viene trovato morto in mezzo a un’autostrada, se non fosse che una regista di nome Carla Rossini si mette a girare dei cortometraggi in stile “neo-horror del Nord-est” che sembrano parlare direttamente al narratore, se non fosse che sul lavoro comincia a girare voce di una serie di sinistri battezzati “filone cinema” dai liquidatori, perché vi sono coinvolti sempre “attori motociclisti”. Il narratore, perduto in una doppia trappola in cui vede ad ogni incrocio Ludovica, invischiato nelle proprie congetture, indosserà i panni, più che del detective, del “cercatore” faustiano, un uomo che tenta di strappare l’ultimo velo.

È un romanzo nel quale i personaggi contano poco, sia chiaro: il narratore vive come se non avesse un corpo, gli altri sono manichini e chimere, non hanno altra dimensione che quella di fantasmi di millennials. L’autore allestisce un teatro delle ombre cinesi, ingigantisce un manipolo di nani creando un effetto di mistero, consapevole che il motore della narrazione è il segreto; nel romanzo breve più che in altri generi “ciò che conta è l’esistenza del segreto in sé, il fatto che esista uno spazio vuoto […], qualcosa di oscuro all’interno della narrazione”, sostiene l’autore argentino Ricardo Piglia in Teoria della prosa (Wojtek, 2021), rifacendosi a Deleuze.

Quaglia viene dal mondo dei racconti sulle riviste, una palestra che gli ha insegnato a dire e a omettere, a tirare in porta e a nascondere la palla con una finta. La prosa si ispira ai nordamericani, atmosfera e simboli sono propri dei post-moderni. Ma questa è la superficie, la forma. Nella sostanza, nel contenuto (al quale la tecnica è servente) Volevamo magia ricorda Stella distante di Bolaño, o Fuga nelle tenebre di Schnitzler, novella il cui tema è la rincorsa del protagonista verso un abisso. Il mondo in cui vive il narratore di Quaglia, la cosiddetta realtà, è infatti molto più assurdo e disperato di qualsiasi intreccio neo-horror descritto nel libro come trama dei cortometraggi di Carla Rossini. Tra colleghi ubriachi alle cene aziendali, vacanze svogliate a Veglia (“strade di porfido, trattorie con griglia aperte venti ore al giorno, case in sterco di gabbiano e tutto l’armamentario acchiappaturisti”), meeting sul risk assessment che non finiscono mai, da qualche parte ci deve pur essere una scappatoia, quando perfino il true crime di Netflix non appaga più. Ed è a questo punto che la fuga del narratore di Quaglia si ricongiunge con la poetica di Bolaño: la pozione per squarciare la realtà, per curare la realtà, non è la psicanalisi viennese, ma la letteratura stessa, nel suo sforzo di Sisifo.

I grandi pessimisti (e Quaglia sembra esserlo) sono così realisti da dare il giusto peso alla finzione: un’importanza smisurata, perché l’impostura è l’unico motore di significato. Guai se, per qualche disturbo cerebrale, questa macchina immaginativa e narrativa cessasse: il reale diventerebbe una prigione beckettiana, una scenografia neo-horror.

Arrivai tardi al lavoro. Trascorsi la mattinata osservando fuori dalla finestra: un palazzo si rifletteva nella vetrata del palazzo adiacente, che a sua volta si rifletteva nella vetrata del palazzo in cui mi trovavo io, e l’effetto ottico si ripeteva all’infinito nella mia fantasia, dove le immagini, o farei meglio a dire i riflessi delle immagini, venivano riproposti in maniera angosciosa e conturbante

In questo passaggio, verso la fine del libro, Quaglia non scioglie l’intreccio, ma getta la maschera: la voce narrante si rivela non essere un americanista spensierato, l’ironico detective di un noir; piuttosto, qualcuno di molto simile a Thomas Bernhard in preda a labirintiche ossessioni.

E non è nemmeno vero che la Trieste assicurativa di Quaglia non ha passato, come suggerito all’inizio: c’è tutta una Mitteleuropa letteraria che ricade sulle spalle del narratore, un’intera tradizione di impiegati-scrittori che girano su sé stessi come cani traumatizzati dagli anni, inaffidabili perché non raccontarla giusta è l’unico modo per dire la verità.

Ma la differenza, la cifra del romanzo – che acuisce per contrasto l’intensità del tema – è la leggerezza, l’armamentario pop di cui si dota l’autore di Volevamo magia, vale a dire: le bacchette magiche con cui ci tiene incollati a un mirabile trucco che si chiama letteratura.

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