di Giuseppe Nava
Anche quest’anno il festival Trieste Science+Fiction ha dimostrato di essere una delle realtà culturali più sane e attive della città, e il pubblico in aumento (è stata più volte riempita del tutto la Sala Tripcovich) ne è stata solo la prova più evidente. La consolidata attenzione nella scelta dei titoli in programma ha portato a questo pubblico diversi film degni di nota, tra cui quelli di cui andremo a parlare.
Cosa faresti se fossi dio?
Prendete un quadro di Bruegel. Toglieteci i colori. Aggiungeteci poi quanto di più sporco, brutto e schifoso associate al medioevo – abbondate di escrementi, sputi, fango. Animate il tutto e avrete più o meno un’idea di quanto contenuto nelle tre ore di Hard to be a god, evento speciale del TS+F14, ultimo lavoro (pubblicato postumo) del regista russo Aleksej Guerman. Uno talmente underground che in quarant’anni di carriera ha potuto completare solo cinque o sei film a causa della censura sovietica, tanto per dire. Giovedì sera, mentre tutti andavano a vedere Sasha Grey (uno degli “eventi mediatici” di questa edizione del festival), ho voluto fare lo snob e ho scelto invece la proiezione di questo film.
La sinossi vuole che in Hard to be a god si parli di un pianeta, Arkanar, che vive un’epoca equivalente al nostro medioevo, e dove un regime oppressivo osteggia gli intellettuali fino all’eliminazione fisica. Don Rumata, uno scienziato inviato dalla terra come osservatore, viene creduto dal popolo figlio di una divinità e prende le difese dei letterati. Ma raccontare questo film è fuorviante e inutile, e descriverlo è impresa ardua. Lo spettatore viene letteralmente spinto, con forza, in un quadro caotico e delirante. Viene sballottato qua e là in un mondo estremo senza alcuna possibilità di redenzione. Come in preda a un perenne horror vacui, la scena è costantemente riempita di persone, oggetti, animali, che passano davanti alla macchina da presa, vi guardano dentro, si frappongono fra lo spettatore e l’azione. Alla fine si esce dalla sala estenuati, come se fossimo stati là, coinvolti direttamente in questo brulicare, tra eventi assurdi e grotteschi. Eppure la sensazione è quella di aver assistito a qualcosa di enorme, di incontenibile, di epico. Un film che non è intrattenimento ma esperienza quasi fisica.
La danza di Jodorowsky
Alejandro Jodorowsky è un simpatico vecchietto che a 85 anni gira ancora il mondo a presentare i suoi film. Il suo premio alla carriera è il momento clou del TS+F14, tanto che i biglietti erano sold out già un paio di giorni prima. La premiazione è preceduta dal Cabaret Mystique, una sorta di monologo in cui “Jodo” racconta aneddoti divertenti, accenna a motivi e scelte di lavoro e di vita, lancia invettive contro le major cinematografiche.
Jodorowsky è un istrione, uno il cui personaggio è già metà della propria arte. Non per niente La danza de la realidad, proiettato dopo la premiazione, è la storia romanzata della sua stessa infanzia. Nel film è palese la passione di Jodorowsky per Fellini («un giorno vidi al cinema La strada e la mia vita cambiò», dichiara durante il Cabaret), e si potrebbe quindi pensare al film come a un suo personale Amarcord. Ma il regista cileno va oltre il sentimentalismo, e invece di un realizzare un omaggio all’infanzia, ne trasfigura gli elementi dando vita a una danza roboante in cui dai ricordi s’inventa una storia diversa. Succede allora che il padre comunista parta davvero per andare a uccidere l’odiato dittatore de Campo, o che la madre salvi miracolosamente il marito appestato urinandogli addosso (!), o che il piccolo Alejandro faccia morire i pesci lanciando sassi nel mare. Una curiosità: Jaime, padre di Alejandro, è interpretato qui dal figlio del regista, Brontis Jodorowsky; il quale a sua volta ne El Topo interpretava il figlio del protagonista, ovvero Jodorowsky stesso… la danza della realtà con la finzione.
No index, I’m human
Una menzione particolare va a Index Zero, film italiano vincitore del premio Méliès d’Argent (che andrà quindi a competere per il miglior film europeo fantastico). Nonostante i problemi con la produzione, il giovane regista Lorenzo Sportiello e gli sceneggiatori sono riusciti a realizzare in modo splendido un film che tocca temi di stretta attualità come la condizione dei migranti e la sostenibilità economica, a dimostrazione di come anche la cinematografia “di genere” (ma esiste ancora?) possa farsi veicolo di un discorso complesso e profondo.
Nel futuro non molto lontano di Index Zero il concetto di sostenibilità è fatto legge, ed è imposto con un “indice” che segnala la capacità del singolo di non pesare sulla società. Da questo indice dipende persino la possibilità di avere figli, ed Eva, immigrata clandestina, rischia l’espulsione perché incinta. Un’idea estrema, ma che prende piede da questioni molto reali, come i vari parametri imposti alle economie nazionali per ottenere migliori punteggi dalle agenzie di rating. Mentre la lunga e claustrofobica sequenza del tunnel, attraverso il quale Eva e il suo compagno Kurt oltrepassano il muro che separa i futuri Stati Uniti d’Europa da un imprecisato, desertico “fuori”, mette in scena con efficacia l’angoscia e la speranza di quanti oggi attraversano le frontiere – a piedi, su un barcone, appesi sotto il rimorchio di un tir.