di Ilaria Moretti
Attenzione: l’articolo contiene spoiler
“È un incubo, un incubo da cui speri di uscire il prima possibile”. È così che alcuni spettatori hanno commentato questo film, proiettato per la prima volta il 18 maggio 2019 durante la Semaine de la critique del Festival di Cannes e presentato poi, il 13 luglio 2019, al Neuchâtel International Fantastic Film Festival. Poi c’è stata la pandemia, proprio in quel tragico mese di marzo 2020, quando il film ha cominciato a uscire sugli schermi europei e milioni di cittadini erano già chiusi in casa, a osservare la strada fuori dalle finestre, a cantare sui terrazzi sperando che quell’incubo impossibile – un virus capace di mettere in ginocchio il mondo intero – sarebbe passato presto, convinti – come lo sono i protagonisti del film – che, in un modo o nell’altro, tutto sarebbe finito per il meglio.
La pandemia, naturalmente, nulla c’entra con il film, anche se a guardare bene lo scenario diabolico costruito da Lorcan Finnegan, gli ingredienti paiono fare eco alla paradossale situazione che noi tutti stiamo vivendo da un anno a questa parte. Ma non c’è solo questo, certo, perché il film racconta di altro, racconta di noi, anche se è difficile fare pace con quest’idea. Difficile accettare che l’universo distopico costruito dal regista altro non sia che la nostra stessa immagine proiettata in uno specchio deformato. Specchio che rimanda al mittente la proiezione amplificata di ciò che è l’essere umano al giorno d’oggi.
Gemma, insegnante elementare e Tom, giardiniere che sogna “un furgone tutto suo” per mettersi in proprio, sono una giovane coppia senza figli. Cercano casa ma, lo si sa, nell’Europa dell’oggi i prezzi sono ormai alle stelle e progettare di comprarsi qualche metro quadrato in più, in centro città, è una pretesa fuori dalle tasche di tutti i comuni mortali appartenenti a quella che in un tempo remoto era chiamata classe media e che oggi è scomparsa, inghiottita dallo spettro dei lavori precari, dell’incertezza sul futuro e della mobilità senza prospettiva. Così Gemma e Tom si lasciano convincere dalle pressioni più o meno insistenti di colleghi e amici – “non attendere troppo, i prezzi continuano a salire”; “sbrigatevi, altrimenti le buone occasioni passano” – a entrare nell’ennesima agenzia dove, ad attenderli, c’è Martin. In camicia-abbottonata-fino-all’ultimo-bottone, brillantina suoi capelli e ghigno da agente immobiliare in mauvaise foi, quest’uomo rappresenta il cliché sartriano del pupazzo programmato per essere il proprio mestiere. Martin fa parte di quella categoria di lavoratori che interpreta il proprio ruolo alla lettera finendo per incarnarlo fino al parossismo. Il suo ruolo è sovra-interpretato, il linguaggio affettato, il tono di voce innaturale. Quel che ne risulta altro non è che un’immagine deformata di un venditore contemporaneo, impomatato nelle proprie (false) certezze, disposto servilmente a servire la causa della propria azienda senza porsi domande sul come e sul perché.
Pausa. Chi non ha mai incontrato un agente immobiliare così alzi la mano. Perché è proprio a quella categoria che Finnegan sembra dirigersi, puntando il dito contro le maschere sociali che siamo costretti a dipingerci sul viso pur di essere performanti nel nostro lavoro quotidiano. Ma performanti per chi? Andiamo avanti.
Gemma e Tom fiutano da subito che c’è qualcosa di strano in questo individuo, Martin, che ha un’etichetta in metallo sul taschino della camicia, che sorride in maniera quasi convulsa, che ha dei movimenti stranamente reiterati che paiono frutto di una nevrosi o peggio di un bluff: uno scherzo dal gusto acre. Nell’agenzia – vuota naturalmente – oltre a Martin-colletto-bianco-abbottonato ci sono una serie di piccoli modelli di casette. Un prato, un tetto spiovente, muri verdi, un’idea di spazio appena fuori dalla città: “né troppo lontano, né troppo vicino, la giusta distanza”. Un luogo, a detta di Martin, che sta facendo faville tra le giovani coppie. Si tratta di un progetto abitativo che presto assumerà i contorni di una nuova comunità di “gente assolutamente interessante” perché chi mai, oggi, non si farebbe tentare dall’idea di un giardino, di un orizzonte un poco più vasto al di là delle soffocanti geometrie urbane? Ma soprattutto, chi oggi non cederebbe dinnanzi al fatto che quelle casette vagamente inquietanti e così spaventosamente identiche – così simmetriche – costano davvero molto meno di un bilocale in città? E come non pensare che forse, al futuro figlio, una cameretta farebbe comodo, così come una cucina e un salotto spazioso, un luogo dove “costruire i propri ricordi”? E benché Martin sia inquietante – ma non più di altri soggetti della sua stessa categoria professionale – benché Tom preferisca uscirsene subito da quell’agenzia, Gemma dice: “aspetta”. Ecco l’errore. L’errore sta proprio in quel “perché no?”. Perché non dare una possibilità, perché non gettare un occhio a una prospettiva abitativa che forse non avevamo immaginato? Già, perché no? In fondo, Sartre ancora lo insegna, le scelte, per quanto libere siano, sono sempre in situazione. Le prospettive sono limitate e il conto in banca di una giovane coppia langue, eppure permane la voglia di trovare un luogo dove posare il capo, seguendo anche gli imperativi degli amici che ricordano l’importanza di non “lasciarsi sfuggire le buone occasioni”. Così, saliti in auto, Gemma e Tom seguono Martin che, guidando davanti a loro, li conduce a Yonder. Si tratta di progetto di lottizzazione periurbano che millanta, dai cartelloni posti all’ingresso del quartiere, di divenire la terra promessa, il luogo dove costruire un futuro per noi e per i nostri figli. Ma qualcosa va storto perché Yonder non è la terra promessa, ma una rappresentazione distopica di ciò che è la vita sul pianeta terra.
La simbologia del film indaga diverse questioni che possono prestarsi a interpretazioni eterogenee. Il film stesso potrebbe essere interpretato come un esperimento sociale. Guardalo, dimmi che ne pensi e ti dirò chi sei e cosa hai capito di questo nostro mondo. Anzitutto il titolo, Vivarium, rimanda all’idea di un vivaio, di un terrario, di una qualche struttura artificiale che tenta di riprodurre un ambiente naturale. Un luogo estraneo dunque a cui l’animale, tuttavia, può adattarsi. Ed è questo che accade a Gemma e Tom, che da Yonder, purtroppo, non potranno più tornare indietro. Viene loro assegnata una casa, la numero nove, e per quanti sforzi facciano per cercare di trovare un’uscita, per quanto cerchino, ripercorrendo le viette tutte uguali – fatte di case verdi tutte uguali –, di trovare un modo per uscire dall’incubo, non fanno altro che ritornare innanzi alla casa numero nove. La benzina finisce. Accettano così di dormirci, in quella casa. Del cibo gli viene pervenuto ogni mattina, in uno scatolone che trovano sul marciapiede davanti al portoncino d’ingresso. Ma quel cibo preconfezionato, liofilizzato, congelato, soppressato, è senza sapore. Tuttavia li nutre. E possono sopravvivere. Cercano allora di fuggire di corsa, di scavalcare palizzate e giardinetti e vialetti sempre identici ma dopo una giornata di sforzi, si ritrovano ancora davanti alla casa numero nove.
A Yonder il cielo è azzurro con delle nuvolette di ovatta biancastre, in rimando al quadro di Magritte, Empire of Light. Non c’è però luce, a Yonder, che non sia artificiale, fasulla, fittizia, come quel bambino, un neonato che gli viene recapitato in uno scatolone simile a quello che porta cibo: “crescetelo e sarete liberi”. Una libertà, dunque, ma sempre in situazione. Gemma e Tom ci provano a crescere questo figlio strano, un figlio-non-figlio che si sviluppa a velocità della luce, che ripete i loro stessi gesti, imitata le loro voci, ha posture macchiettistiche e reiterate (come Martin) e urla invece di chiedere aiuto: urla se è stanco, se ha fame, se vuole giocare. Tom comincia così a scavare una buca. È un giardiniere e se non può costruire, se non può piantare, può almeno cercare di distruggere. Ogni mattina si sveglia e lascia Gemma nella sua solitudine finto-materna. Scava la buca in giardino, sperando di trovare qualcosa, cercando di capire di cosa è fatto Yonder, perché una fine ci sarà pure, da una parte o dall’altra. Sta a Gemma, sola e senza mezzi, il compito di crescere il figlio. Si illude, sperando che la finta vita d’ovatta riserverà qualcosa per il giorno successivo. Un cambiamento, una prospettiva. Ma la vita altro non è che una sequela di giorni tutti identici: perché i figli crescono, e i mariti sono sempre più sfiniti, sempre più assenti a causa dei loro lavori ripetitivi e inutili. Come Tom che si scava, letteralmente, la fossa da solo.
Nella casa numero nove i quadri in salotto non esistono. Ce n’è soltanto uno che riproduce, come uno scherzo di cattivo gusto, la stessa casa numero nove: un disegno osceno e ridondante a ricordare che, in questa vita flaccida senza sapore, altro orizzonte non esiste se non quello limitato del proprio perimetro. Che uscire dal gioco non è possibile, non basterà gridare Jumanji per svegliarsi nel proprio letto. Per Finnegan, la vita degli uomini è questa sequela allucinata di imperativi senza colore. Il figlio cresce, non vuole leggere, non dialoga, è quasi asociale, ma ama imbottirsi di immagini psichedeliche proiettate da un mega schermo situato nel salotto. È inghiottito da quel nulla, ipnotizzato dall’inguardabile.
Una volta adulto, libero dal vincolo genitoriale, si dirigerà nella stessa agenzia immobiliare dell’inizio, prenderà l’anziano Martin per le ascelle, lo insaccherà in una busta di plastica per chiuderlo in un cassetto. Ora che il vecchio non serve più, starà alla giovane leva recuperare l’etichetta in metallo, essere lui il nuovo Martin dal sorriso finto, il nuovo Martin dal colletto-abbottonato, dalla camicia-bianca-a-maniche-corte. Pronto a gettarsi nel mondo del lavoro come l’ennesimo manichino senza sentimento, senza dignità, specie mutante cresciuta nel vivarium degli esseri umani al pari di quel cuculo ripreso all’inizio del film: uccello parassita che imita gli altri uccelli per rubargli il nido. Questi infiniti piccoli Martin han dunque bisogno della nostra specie. Senza di noi non saprebbero crescere, perché senza amore, senza cura, senza sentimento, si muore. Tuttavia, sembra suggerire Finnegan, ora che ci hanno colonizzati possono tranquillamente imporre la loro incapacità di relazione. Possono entrare nel mondo del lavoro ripetendo stancamente mansioni una dopo l’altra, attendendo una morte non così remota, pronti a essere sostituiti dal prossimo Martin-giovane che verrà dopo di loro e così via fino alla fine.
No, Vivarium non è un film fantascientifico, quanto un documentario sulla nostra alienazione ormai dilagante, sdoganata e quasi agognata. Perché il tragico, al fondo, è proprio questo. L’abbiamo voluta noi questa società perversa e mutante, l’abbiamo pensata, progettata, costruita noi. Abbiamo desiderato lo schermo piatto, la casa col giardino, il cielo sempre sereno, il frigo con lo champagne che non sa di nulla, ma almeno è champagne: l’apparenza è salva. Lo sosteneva già Marcuse che il condizionamento non “inizia con la produzione di massa di programmi radio-televisivi e con l’accentramento del controllo di questi mezzi. Quando si arriva a questa fase”, si è già condizionati da lungo tempo. Perché siamo noi che abbiamo accettato la schiavitù, l’omologazione, il conformismo senza posa. Perché per poter vivere avevamo pur bisogno di stare in quel lavoro, di stare buoni e di accettare le condizioni pietose che ci avevano imposto, pena la perdita, la povertà estrema, il collasso del sistema famigliare. E per il resto? Abbiamo creduto che fosse giusto adagiarci, nell’era post-berlusconiana da degenerazione intellettuale, a quell’idea di svago che rima tanto con disimpegno, perché pensare era per gli altri, per coloro che, sempre per dirla con Marcuse, non possono far altro che opporsi al sistema con un “rifiuto intellettuale ed emotivo” ma dai loro simili sono considerati dei paria, dei “nevrotici”, degli “impotenti”. Anche Gemma e Tom accettano di crescere il bambino. Lo accettano perché forse, in cambio, si sarà liberi. E noi, nell’attesa di questa libertà non facciamo altro che scavare, ogni giorno e senza posa, la nostra buca. Non ci ribelleremo al sistema, perché la casetta la vogliamo tutti, anche se questo ha portato alla frenesia della lottizzazione, anche se la pianura, la campagna, la collina e pure la montagna è stata colonizzata dal cemento, dalla progettazione di alveari per umani pronti a vivere e morire stando tutti nella stessa posizione, facendo tutti le stesse cose. Siamo andati avanti convinti, persino, di non essere alienati, convinti che avremmo potuto fare come Gemma e Tom, rompere il cerchio delle fatiche quotidiane, correre verso l’avvenire. Persuasi che gli sforzi sarebbero stati premiati. Ma per quanto impegno ci si metta, per quanta energia, spirito d’iniziativa si impieghi, ormai è tardi. Ormai anche i coraggiosi non potranno far altro che illudersi d’uscire dal percorso già tracciato, ritrovandosi poi, dopo molta strada percorsa, al punto di partenza, dinnanzi alla casa numero nove.