di Francesca Plesnizer
La mostra triestina “Vivian Maier. The Self-portrait and its Double” ospitata al Magazzino delle idee dallo scorso 22 luglio e prorogata fino al 13 ottobre, raccoglie una serie di autoritratti della fotografa statunitense scomparsa – nel più totale anonimato – nel 2009. La curatrice della mostra è Anne Morin di diChroma Photography (Madrid), che assieme all’Ente regionale per il patrimonio culturale, la John Maloof Collection e la Howard Greenberg Gallery di New York, ci narra una storia segreta per immagini.
La Maier si ritraeva negli specchi, nelle vetrine, a testa in giù; ci mostrava talvolta solo la sua ombra, proiettata su un prato adiacente una casa o su un muro cittadino. Ma tutti questi autoritratti non devono portarci fuori strada: schiva e tremendamente gelosa della sua privacy, la fotografa odiava le attenzioni. Tanto che le sue creazioni (in tutto circa 120.000 negativi, più filmati, audioregistrazioni e rullini mai sviluppati) restarono sempre nascoste e vennero alla luce per pura casualità dieci anni fa.
©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
Ma chi era, in realtà, Vivian Maier? Ce lo racconta John Maloof nel suo documentario del 2013 (che viene proiettato anche al Magazzino delle idee) Finding Vivian Maier – Alla ricerca di Vivian Maier. Maloof voleva scrivere un libro storico su Chicago e si è ritrovato ad acquistare a un’asta le foto della Maier nel 2009, rendendosi presto conto che quegli scatti, pur essendo inadatti al suo libro, erano veri e propri pezzi d’arte.
La Maier era una tata, una donna alta e austera che camminava come un soldato, con un accento francese che ad alcune persone suonava falso (era di origine francese, sebbene nata a New York nel 1926, e tornò nel paesino di famiglia nelle Alpi francesi un paio di volte). Era una persona sola e solitaria, un’accumulatrice compulsiva di giornali, oggettini d’ogni sorta, ricordi d’un passato nebuloso. Di lei e della sua famiglia si sa poco: suo padre era di origine austriaca e sua madre era francese, ma i due si conobbero a New York negli anni ‘20 ed ebbero due figli, lei e suo fratello maggiore. Quando i suoi genitori si separarono, lei rimase con sua madre e le due vissero nel Bronx con un’amica di quest’ultima, la fotografa Jeanne Bertrand, che di certo trasmise a entrambe la passione per la fotografia.
Nubile e quasi senza affetti, la Maier era talvolta una babysitter dai modi più che discutibili: gironzolava per le città (New York, Chicago, Los Angeles) portandosi dietro i bambini ai quali badava per poi non curarsene più di tanto, troppo impegnata a scattare foto a qualsiasi cosa vedesse.
Tutti la ricordano sempre con la sua macchina fotografica al collo (un modello speciale, la Rolleiflex, che permetteva di fotografare tenendo la camera in grembo, senza dover inquadrare e puntare l’obiettivo su qualcuno). Eppure tutti si sono altrettanto stupiti nello scoprire che era stata una così straordinaria, originale e prolifica artista. Una di quelle capaci di catturare attimi di dolcezza e arrendevolezza, di trasmettere nei suoi scatti il suo sense of humor ma anche di mostrare la tragedia, la malattia, la pena profonda, la vecchiaia – che forse tanto ha temuto, sapendo che l’avrebbe affrontata da sola, come ha affrontato anche il resto della sua esistenza.
Ci sono tanti bambini, nelle sue foto: i “suoi” bambini, quelli a cui badava, bambini incrociati per caso in strada mentre piangono, ridono, fanno facce sorprese, vivono la loro vita.
©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY
Ci sono animali: un cavallo maestoso che galoppa in una strada cittadina e un cavallo morto, sempre sulla strada, la testa abbandonata a ridosso del marciapiede, il sangue che scorre. Ci sono gli indigenti, quei poveri simili un po’ a lei, che non aveva nemmeno un’assicurazione sanitaria perché tanto, come diceva: “I poveri sono troppo poveri per morire”.
Ci sono ritratti sorprendenti, vivi, euforici, vibranti, perché era capace di avvicinarsi alle persone che non conosceva quel tanto che bastava per permettere loro di essere se stessi senza filtro, come se la macchina fotografica fosse un rivelatore d’identità.
Vivian Maier non era socievole ma al contempo lo era (peculiarità dei fotografi di strada): scattava di getto, senza chiedere il permesso, tanto che vediamo volti arrabbiati, nelle sue fotografie, e molti che la conoscevano si sorprendono che nessuno l’abbia mai aggredita per aver rubato pezzi della privacy altrui. Proprio lei, che era così riservata. Quando scattava però, la sua discrezione si dissolveva: non era affatto delicata, passava anzi sopra ai sentimentalismi, alle smancerie, alle etichette con una dura risolutezza e una curiosità avida.
Questa fotografa resta un profondo mistero che non può essere svelato solo tramite le sue foto. Esse ci raccontano come vedeva il mondo, cosa coglieva nel mondo e nelle persone. Ci fanno capire che, per quanto fosse stramba e forse affetta da qualche disturbo psicologico o magari vittima di un trauma (non voleva farsi toccare da nessuno e mostrava un insolito odio verso gli uomini, racconta una delle “sue” ex bambine), era in grado di percepire l’umanità, la gioia, il dolore, l’amore, la compassione, lo splendore, lo squallore. Vedeva tutto questo e lo catturava ossessivamente, come se avesse avuto un costante e instancabile bisogno di accumulare delle “prove” provenienti da un mondo dal quale si sentiva tagliata fuori. Registrava da una prospettiva privilegiata: il suo era il privilegio dell’invisibilità, dell’anonimato. Era “solo” una tata che ha perso l’occasione di diventare famosa in vita. Maloof l’ha infatti rintracciata tramite il suo necrologio: era morta pochi giorni dopo che lui aveva acquistato il suo primo baule di foto. La macabra e ironica tempestività della morte. Ma proprio perché era comune e non vista, poteva permettersi di catturare indisturbata la vita.
La mostra triestina ci fa comprendere quanto ella volesse mostrare se stessa. Fotografandosi si affermava, si dava esistenza, presenza, consistenza, realtà. Quando si ritraeva trovava il suo posto nel mondo, dietro la macchina fotografica e davanti a una superficie riflettente che la sdoppiava rendendola forse più comprensibile (o accettabile?) a se stessa.
©Estate of Vivian Maier, Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery, NY