di Nizam Pompeo
Se è possibile replicare o, meglio, superare un capolavoro, Paolo Sorrentino lo ha fatto. Dopo aver diretto La grande bellezza, film che gli è valso il Premio Oscar, il regista napoletano ci regala infatti con Youth-La giovinezza un altro grandissimo film.
La storia ruota attorno a Fred (Michael Caine) e Mick (Harvey Keitel), due inseparabili amici, il primo compositore e direttore d’orchestra in pensione “dal lavoro e dalla vita”, il secondo un celebre regista che vuole lasciare al mondo un ultimo film. Due personaggi ormai lontani dalle scene, che in passato hanno fatto immergere il pubblico e le persone con cui hanno lavorato nell’indescrivibile miracolo che è l’arte. Eppure la loro passata grandezza li sta logorando: Fred viene ricordato per le sue melodie più semplici ed essenziali, mentre gli ultimi film di Mick hanno segnato il suo declino professionale, non essendo affatto all’altezza dei primi. Nel lussuoso albergo tra le alpi svizzere in cui si svolge il film soggiorna poi anche il giovane attore californiano Jimmy (Paul Dano), che si sta preparando ad affrontare la parte di uno dei personaggi più odiati della storia, Adolf Hitler, e vive una profonda crisi: si sente imprigionato perché il pubblico lo ricorda solo per il ruolo di un robot in un film commerciale di cui si è pentito. Fred, Mick e Jimmy sono perseguitati dalla loro arte: non possono sfuggirle o rinnegarla, ma non sono nemmeno in grado di farsi investire totalmente da essa, a causa della vecchiaia o della delusione che li opprime come un fardello irremovibile.
In questo suo nuovo film Paolo Sorrentino si interroga sulla fragilità e l’insicurezza che si celano dietro al successo e al riconoscimento, mostrandoci come le risposte più sagge vengano, forse paradossalmente, da coloro che hanno meno esperienza: i bambini, che riescono a cogliere la complessità della vita proprio grazie al loro sguardo ingenuo, non viziato da pregiudizi. È una bambina, infatti, ad aver visto il film di cui Jimmy va più fiero, riconoscendogli uno dei più grandi meriti che possa avere un attore, cioè di aver trasmesso e insegnato qualcosa: la bimba, grazie ad una scena particolarmente toccante interpretata da Jimmy, ha “capito una cosa importante: che nessuno si sente all’altezza”.
Come ne La grande bellezza, a cui Youth si avvicina moltissimo per gusto e tematiche, anche qui abbiamo dialoghi e scambi di battute taglienti tra personaggi che si celano dietro ad atteggiamenti ipocriti ed etichette più o meno azzeccate, nel disperato tentativo di smascherare l’altro. Ma non lo fanno per amore della verità o della trasparenza, quanto piuttosto per sopravvivere, a costo di scavalcarsi a vicenda. Come ne La grande bellezza, anche in questo film i personaggi sono abituati a mentire, a coprirsi di fasti e bagliori per distrarre l’attenzione dalla propria essenza, che custodiscono gelosamente per proteggerla da un mondo che, a causa della loro notorietà, la distorcerebbe brutalmente per darla in pasto a stampa, seguaci e ammiratori. Il valore aggiunto delle battaglie verbali di Youth è la sottile sfumatura di ammirazione nei confronti dell’avversario, fattore che non troviamo in quelle della pellicola precedente, in cui ogni stoccata è espressamente tesa ad essere quella definitiva.
Oltre all’ironia e alla spensieratezza di certi dialoghi, in Youth troviamo anche massime e metafore degne di nota, ed è qui che Sorrentino svela tutta la sua abilità di sceneggiatore oltre che di regista: resta nella memoria il momento in cui Mick spiega giovinezza e vecchiaia paragonandole, rispettivamente, a vicinanza e lontananza. Quando si è giovani si vede tutto così vicino perché è il futuro a cui andiamo incontro, mentre da vecchi tutto è più lontano, e i ricordi svaniscono nell’illusione del passato.
Più che ad una storia vera e propria, nel film assistiamo ad una lunga, misurata dichiarazione d’amore: alla Natura, rappresentata dall’incantevole quiete delle Alpi svizzere; all’Amicizia, intesa come condivisione intima e perenne, sacra e spensierata, di infiniti momenti e pensieri; e infine alla Musica, perché “non c’è bisogno né di parole né di esperienza per capirla. La musica c’è”. E c’è anche nei silenzi assordanti di cui il regista vuole sottolineare l’importanza, senza tralasciare però il chiasso, il rumore vano e tumultuoso che imbratta e uccide la poesia nella nostra quotidianità. Una riscoperta di valori di cui ogni sguardo, ogni suono, ogni inquadratura è testimonianza pura e semplice.
Scene indimenticabili si susseguono in un’elegante danza intrisa di poesia: tutte le attrici dirette e lanciate da Mick che pronunciano a ripetizione le battute che le hanno rese celebri, che non sono spettri dal passato, ma piuttosto apparizioni a coronamento di una vita dedicata al cinema; la giovane massaggiatrice che balla in solitudine esplodendo di fronte solo a se stessa; le lacrime che scendono silenziose sul volto di Lena (Rachel Weisz), figlia di Fred; il “concerto” che quest’ultimo improvvisa con un’orchestra composta di fruscii, muggiti, cinguettii e scampanellii, in un’atmosfera a dir poco magica.
Il merito della riuscita di Youth non va attribuito soltanto a Sorrentino, tuttavia, ma anche all’intera, formidabile équipe che ci ha lavorato: le musiche originali di David Lang scandiscono il film come fosse un rapido e impalpabile alternarsi di stagioni; la fotografia di Luca Bigazzi è ineccepibile, solenne e teatrale nel sottolineare l’importanza di alcune scene; l’interpretazione canora della soprano Sumi Yo è di un’eleganza e una potenza struggenti e, dulcis in fundo, Michael Caine, Harvey Keitel, Paul Dano, Rachel Weisz e Jane Fonda conferiscono ai loro personaggi tutta la grandezza e la fragilità umana, a completare una sinfonia perfetta alla ricerca della leggerezza, perversa tentazione e profonda necessità. Perché, come dice il protagonista in un momento di estrema sincerità, “loro non sanno che, nonostante tutto questo, a noi piaceva pensare di essere una canzone semplice”.